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giovedì 31 marzo 2011

il lato oscuro della speranza

Final Fantasy X ritrae un mondo sotto la piaga del peccato. Gli abitanti di Spira coesistono con l’esistenza di questo sovrastante terrore riponendo la loro fede nella religione di Yevon e negli Evocatori (Summoners), che sono gli unici ritenuti capaci di salvare Spira e dare inizia alla tanto desiderata Calma. Friedrich Nietzsche si lamenterebbe dell’effetto che la religione Yevonita ha sulla popolazione di Spira e la condannerebbe perché incoraggia a riporre speranza in un falso aldilà a spese della vita presente. Il filosofo desidera un ritorno allo spirito d’azione, l’interesse per questo mondo e una volontà di potenza, essendo profondamente sospettoso nei confronti della credenza che tutte le sofferenze attuali assumano un valore positivo perché in futuro saranno ricompensate.
Il risultato di questo atteggiamento negativo nei confronti di questo mondo è che la maggior parte degli abitanti di Spira non può conquistarsi il paradiso da se stessa. A meno di essere un Evocatore, tutto ciò che si può fare è essere pii e attendere.
Nietzsche interpreterebbe la situazione di Spira come quella prodotta dal Cristianesimo: la religione gioca sulle paure delle masse al fine di ottenere appoggio per una nuova forma di pensiero che sovverte i valori conducendo alla moderna concezione della morale, la grande ribellione contro il dominio dei valori nobili. Yevon influenza la popolazione con l’umiltà che insegna che si è impotenti a sconfiggere il peccato.
Alla fine del gioco, Yevon probabilmente non può continuare ad esistere. Il suo potere di imbrigliare l’originale e basilare sentimento di paura dell’uomo non è più applicabile. L’aspetto centrale della vita che ha mantenuto fedeli gli abitanti di Spira è stato distrutto. Nietzsche vedrebbe questo destino come un’opportunità per gli uomini di andare avanti, trascendere una vita di servitù e umiltà, iniziare invece a vivere per se stessi, seguendo la propria volontà, raggiungendo una gloria terrena.

(da David Hahn, Sin, otherworldliness, and the downside to hope, in Final Fantasy and Philosophy)

mercoledì 30 marzo 2011

crossover: per una filosofia popular

More about Pop filosofia
Gioco mentale in forma di parole. Pensiero in atto che richiede forza, creatività e il coraggio di sperimentare, in assoluta libertà, l’inedito. Esiste un atletismo del pensiero. E la filosofia ne è forse l’espressione più pura e pericolosa. Perché estrema. «Nessuno disconosce la pericolosità degli esercizi fisici estremi, ma anche il pensiero è un esercizio estremo», scrive Gilles Deleuze (Pourparler). Stile, pensiero, vigore. Nulla è meno rassicurante di questi giochi o esercizi estremi in forma di parole.
È tempo di portare la battaglia filosofica nella popular culture, usando le armi migliori a disposizione della filosofia, dal pensiero critico alla decostruzione. Che la filosofia stessa si trasformi, così, in filosofia popolare, o pop filosofia, piuttosto che un rischio da evitare, è un obiettivo strategico da perseguire.
La pop filosofia è anche un ripensamento del momento essoterico della filosofia e una nuova forma di attivismo culturale e filosofico: è critica e decostruzione della cultura pop, ma anche capacità di contaminarsi con la cultura pop e di presentarsi essa stessa come opera di cultura pop. La pop filosofia è una filosofia mutante, è crossover in quanto incrocio e contaminazione di filosofia e cultura pop, perché mescola stili filosofici differenti e arriva anche a un pubblico che di norma non legge filosofia.
Pop filosofia è intesa come avanguardia filosofica insieme sperimentale e popolare, come ripensamento e trasformazione pop dell’idea deleuziana di macchina da guerra: oggetti vari della cultura di massa e pezzi di filosofia sono presi, decostruiti e riassemblati per dar vita a una macchina da guerra.

(da Simone Regazzoni, Prologo a Pop Filosofia)

martedì 29 marzo 2011

che cos'è un'isola?

Nel corso del suo seminario (2002) dedicato alla lettura incrociata di Robinson Crusoe e Martin Heidegger, Jacques Derrida si chiede: «Che cos’è un isola? Non c’è mondo, ci sono solo isole». Come se un pensiero dell’isola ci portasse a ripensare il mondo, a mettere in discussione l’idea che c’è un mondo, là fuori: un mondo unico, vero, stabile, di cui facciamo esperienza.
In Lost l’isola è essa stessa un personaggio e ti sta sempre in agguato dietro le spalle. Può anche essere vista come una metafora di Dio – o, più radicalmente, come Dio essa stessa, sulla scia dell’idea elaborata dalla filosofia di Spinoza secondo cui Dio e Natura si identificano, e ogni cosa esistente non è altro che un modo, una manifestazione di Dio. Solo alla fine scopriremo che cosa o chi è, in verità, l’isola. Uno spazio simile al Lost World di Jurassic Park o all’isola incantata di Prospero nella Tempesta di Shakespeare. Una nuova Atlantide. Un artefatto tecnologico di origine umana o extraterrestre. Il terreno per un insolito gioco di ruolo. Un Valis (acronimo di Vaste Active Living Intelligent System – Vasto Sistema di Intelligenza Viva e Attiva), come quello creato da Philip K. Dick. Una forma singolarissima di essere vivente simile all’isola di Krakoa che compare per la prima volta nell’universo della Marvel Comics in Giant-Size X-Men #1.
Ma è come se ogni domanda incontrata nell’orbita di Lost fosse doppia. Come se portasse con sé l’enigma di una questione filosofica più essenziale che va al di là delle risposte che la serie stessa, con il suo procedere, dà.
L’isola si gioca attorno a un doppio movimento: separazione e origine. Separazione dal continente, per le isole continentali. Origine dal fondo del mare, per le isole oceaniche. «Le isole continentali» scrive Deleuze «sono isole accidentali, derivate: sono separate da un continente, nate da una disarticolazione, da un’erosione, da una frattura, sopravvivono all’inabissamento di ciò che le tratteneva. Le isole oceaniche sono delle isole originarie, essenziali: alcune emergono lentamente, altre invece spariscono e poi riappaiono» (L’isola deserta e altri scritti). Lo sparire è costitutivo delle isole quanto il loro apparire, è parte della loro instabile natura, come mostra bene Jean-Luc Nancy: «Di quando in quando un’altra specie di onda si immobilizza in superficie, ed è un’isola scaturita da un altro sollevamento, da un altro corrugamento delle profondità. Di quando in quando, allo stesso modo, un’isola sparisce sotto il mare, ripresa da un altro movimento del fondo» (La nascita dei seni – l’isola viene posta in relazione, da Nancy, con il seno, a sua volta in relazione con l’essere, visto che il francese sein, “seno”, è omografo del tedesco Sein, “Essere”. Poche righe dopo, Nancy evoca queste parole di Lacan tratte dal Seminario VIII: «L’estremità del seno è anch’essa in una posizione di isolamento su uno sfondo, ed è perciò in una posizione di esclusione rispetto a quel rapporto profondo con la madre che è quello del nutrimento. Pensate a quelle isole di cui vedete la pianta sulle carte marittime: non è rappresentato in nessun modo ciò che c’è sull’isola, ma solamente il contorno. Ebbene, è la stessa cosa per gli oggetti del desiderio in tutta la loro generalità»).
Il doppio movimento che anima le isole contamina anche i soggetti che alle isole si rapportano, nella forma di una separazione dal mondo e di un nuovo inizio. «Lo slancio che spinge l’uomo verso le isole riprende il doppio movimento che produce le isole stesse. Sognare le isole, non importa se con angoscia o con gioia, significa sognare di separarsi, di essere già separati, lontano dai continenti, di essere soli e perduti – ovvero significa sognare di ripartire da zero, di ricreare, di ricominciare», precisa Deleuze.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

lunedì 28 marzo 2011

i lampi di possibili tempeste

More about Harry Potter e la filosofia«La critica sentenziosa mi fa addormentare – diceva Foucault –; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste» (Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3. estetica dell’esistenza, etica, politica). Sono i lampi di queste tempeste ciò che la filosofia dovrebbe provare a scatenare in un inedito confronto con il proprio tempo. La cultura di massa o cultura pop, con le sue storie e i suoi mondi, è oggi un campo imprescindibile per l’esercizio dell’antico e nobile amore della sapienza. Un esercizio qui inteso come riscrittura filosofica del testo pop e montaggio del testo filosofico con il testo pop. 
Certo, nell’Occidente antimagico vi sarà sempre qualche Babbano pronto a dichiarare che un romanzo di maghi, fantasmi, manici di scopa volanti, draghi, è diseducativo per la ragione, oltre che per i giovani lettori di cui rischierebbe di distorcere l’indole, e tante grazie. Ma questa, in fondo, è solo una vecchia storia, buona per spiriti tristi e risentiti che non sanno come giustificare la propria pigrizia intellettuale. E di questa storia, francamente, mi importa poco o nulla. La saga di Harry Potter è vera e reale perché apre un mondo. È quanto ci ha insegnato Heidegger: un’opera d’arte è la messa in opera di una verità in quanto è capace di aprire un mondo, di mettere in atto un mondo. È da qui, e non dai balbettii di certa critica letteraria, che occorre partire per comprendere la portata del romanzo-mondo creato dalla Rowling. La saga di Harry Potter è, a tutti gli effetti, un’opera d’arte della cultura pop di grande complessità e bellezza, e una risorsa straordinaria e potentissima per l’esercizio della filosofia. Una filosofia per bambine e bambini, streghe, maghi e Babbani. E per quanti sanno prestare ascolto alle parole di un grande poeta, René Char, che scriveva: «Sviluppate la vostra legittima stranezza».

(da Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia)

sabato 26 marzo 2011

anche wolverine apprezza l'arte

La Marvel annuncia che il mese di aprile, in occasione del 35° anniversario di Wolverine, l'artigliato mutante canadese, sarà il "Wolverine Art Appreciation Month", celebrato con immagini ispirate a famosi capolavori di artisti quali Magritte, Dalì, Warhol, Van Gogh, Picasso, Coolidge.
Eccone alcune. 

Un Wolverine alla René Magritte

Un Wolverine surrealista alla Salvator Dalì

Un Wolverine alla Vincent Van Gogh e uno che fa "pop" alla Andy Warhol.

venerdì 25 marzo 2011

la ricerca esistenziale dell'autenticità

Nietzsche asserisce che Dio è morto, cioè è diventato obsoleto e non dovrebbe più essere considerato come garanzia di una qualsiasi guida nel mondo moderno: è solo attraverso l’accettazione dell’assenza di Dio che l’individuo può finalmente essere libero e imparare a creare valori che siano veramente suoi propri.
Per Sartre, questa condizione è ben riassunta nell’affermazione “l’esistenza precede l’essenza”: diversamente dagli oggetti e dagli strumenti che sono creati dall’uomo allo scopo di servire ad uno specifico ruolo o scopo, gli esseri umani hanno la peculiarità di venire al mondo senza alcuna predeterminata essenza o ragione d’essere. Non avendo un’essenza determinata, l’uomo deve scegliere cosa diventare, è condannato ad essere libero e deve accettare la responsabilità che accompagna questa assoluta libertà.
Benché l’uomo sia necessariamente libero, Sartre sostiene che spesso egli tenta di negare la propria libertà: la malafede è un modo d’essere inautentico fin troppo comune nelle nostre vite. Consideriamo il caso Di Cloud, protagonista del videogioco Final Fantasy VII. Nelle sue iniziali apparizioni, egli si presenta come un freddo e arrogante mercenario il cui unico interesse è quello di essere ricompensato per il suo contributo ad AVALANCHE. Cloud recita il suo essere un soldato.
La ricerca di Cloud in Final Fantasy VII  non è tanto quella fatta per salvare il mondo, quanto piuttosto quella fatta per venire a termini con la coerenza del proprio ruolo in esso. Cloud arriva a realizzare che i valori della sua gioventù, che gli sono stati impartiti dalla sua comunità, sono divenuti obsoleti: i suoi tentativi di adattarsi ai suoi pari essendo se stesso sono falliti, ed egli si trova lasciato solo a se stesso nella vastità del mondo aperto. La decisione di scalare i ranghi militari sembra offrire una potenziale soluzione al suo crescente nichilismo, ma in questa stessa decisione risiede il pericolo di allontanarsi dall’obiettivo della vera indipendenza. L’atteggiamento iniziale di Cloud da “duro”, tenuto per la prima metà del gioco, non è mai stato suo proprio, ma piuttosto è interamente adottato sulla base del suo concetto di come un soldato di prima scelta dovrebbe essere.
La seconda parte del gioco contiene invece l’indicazione del suo desiderio di ricominciare daccapo, di iniziare a vivere autenticamente: «Cloud… Io sono Cloud… padrone del mio mondo illusorio. Ma non posso più rimanere intrappolato in un’illusione… Vivrò la mia vita senza fingere».

(da Christopher R. Wood, Human, all too human: Cloud's existential quest for authenticity, in Final Fantasy and Philosophy)

mercoledì 23 marzo 2011

eroi e supereroi

Il concetto di supereroe è problematico: più è “super” un individuo e meno è “eroico”, al contrario, più è “eroico” e meno deve essere “super”. Il concetto di supereroe è, dunque, al peggio un ossimoro, e al meglio implicherebbe che è da considerare eroe chi occupa i livelli più bassi dello spettro dei poteri, chi ha poca protezione ed è molto vulnerabile. Ma questo ragionamento è una semplice incomprensione. Il concetto di eroe è un concetto morale: un eroe è un uomo ammirato per i successi e le nobili qualità. Un supereroe è una persona estremamente potente, con debolezze e punti di forza, guidata dal suo nobile carattere in degne imprese. 
Uno dei problemi che J. Jonah Jameson, editore capo del quotidiano newyorkese "Daily Bugle", ha con Spider-Man è che la mera esistenza di un uomo che vive per gli altri è qualcosa come un manifesto rimprovero al resto degli uomini per l’inconcepibile inerzia, e quindi complicità, davanti ai tanti mali del mondo. I supereroi si distinguono non solo per i loro poteri ma per il loro attivismo altruistico e dedizione a ciò che è bene. Tenendo a mente il “super”, non bisogna mai permettersi di dimenticare l’elemento “eroe”. Non ogni combattente-del-crimine mascherato è necessariamente un eroe, e non ognuno con poteri sovrumani è necessariamente un supereroe.
Cosa ci vuole per essere un eroe? Sacrificio, autodisciplina, coraggio, determinazione, persistenza, lavoro di gruppo, creatività e autolimitazione, una linea da non attraversare, combattere il male senza diventare malvagi.
Platone credeva che il bene fosse intrinsecamente attrattivo, che ciò che è buono ci trascinasse nella sua direzione. Seneca scrisse: «Nessun uomo di grande valore è compiaciuto con ciò che è basso e inferiore. La visione di grandi imprese lo chiama e lo innalza». E ancora: «Scegli per te stesso un eroe morale la cui vita, discorsi e volto ti piacciano, immaginatelo in ogni momento come tuo protettore e come tuo schema etico. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno il cui esempio possa regolare il nostro carattere. Adora un qualche uomo di gran carattere e tienilo sempre a mente. Poi vivi come se ti stesse guardando e ordina tutte le tue azioni come se le vedesse».

(da Jeph Loeb, Tom Morris, Heroes and superheroes, in Superheroes and philosophy)

martedì 22 marzo 2011

tutti gli uomini sono filosofi

Lo spettro della filosofia si aggira per l’isola di Lost e si presenta in forma di nomi propri. Che fare con questi nomi di filosofi? Nulla. Resistere alla tentazione pedante di cercare nessi e collegamenti con i protagonisti della storia della filosofia. Chiunque può portare il nome di un filosofo. Perché ogni donna e ogni uomo è portatore di una filosofia. Ogni vivente umano è, a suo modo, filosofo. La singolare normalità con cui i nomi di filosofi circolano per l’isola indica in primo luogo questo: che la filosofia non è appannaggio dei filosofi di professione, non è sinonimo di accademia e professionisti del pensiero.
Nel corso delle sue Conversazioni con Claire Parnet, Deleuze è molto duro con la storia della filosofia: «La storia della filosofia è sempre stata l’agente del potere nella filosofia, e anche nel pensiero. Essa ha giocato il ruolo repressivo: come potete credere di pensare senza aver letto Platone, Cartesio, Kant e Heidegger, e neanche il libro di questo o quell’autore su di loro?»
Nei Quaderni del carcere (Quaderno 11) Antonio Gramsci scrive: «Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre piuttosto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea”. Tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo».
In Lost le vicende di ogni personaggio sono la storia di una visione del mondo che si confronta e si intreccia con le altre. Lost è una polifonia di visioni del mondo che ruotano intorno all’enigma della verità come enigma dell’isola.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost

 

lunedì 21 marzo 2011

humpty dumpty, maestro di logica

I Sofisti dell’antica Grecia hanno molto in comune con molte delle loquaci creature che Alice incontra nelle sue avventure. Ma Alice stessa emerge come una sorta di eroina socratica nella sua insistenza nell’usare la ragione per scoprire la verità piuttosto che sfruttare le risorse di una logica puramente formale per ridurre il mondo a un volontario non-senso, per giustificare conclusioni totalmente arbitrarie. Il motivo eristico del dimostrarsi migliore del proprio avversario nell’argomentazione è più evidente che mai nell’incontro di Alice con Humpty Dumpty: “Perché te ne stai seduto lì tutto solo?”, chiede Alice. “Perché non c’è nessuno con me”, grida Humpty Dumpty, “Pensavi che non conoscesi la risposta a questo?”. La risposta è perfettamente logica ma in nessun modo informativa. L’attenzione non è posta sul significato della domanda, ma solo sulla forma in cui è posta. 
C’è una distinzione tra significato e forma di nuovo nel seguente dialogo: “Ecco una domanda per te”, annuncia Humpty Dumpty, “Quanti anni hai detto che hai?”. Alice fa un rapido calcolo e risponde “Sette anni e sei mesi”. “Sbagliato!”, esclama trionfante Humpty Dumpty, “Non hai mai detto una parola a riguardo!”. “Pensavo che intendessi quanti anni hai”, spiega Alice. “Se avessi inteso ciò, lo avrei detto”. 
La connotazione, il significato di una parola nell’effettivo parlato, è spesso differente dalla denotazione, la definizione letterale da dizionario. Allo stesso modo ragionano altri abitanti del Paese delle Meraviglie. “Cosa vuoi comprare?”, dice la Pecora alzando lo sguardo dal suo lavoro a maglia. “Ancora non lo so”, risponde Alice gentilmente, “Vorrei prima guardarmi tutto intorno, se posso”. “Puoi guardare davanti a te, e da entrambi i lati, se vuoi”, dice la Pecora, “ma non puoi guardarti tutto intorno – a meno che tu non abbia occhi dietro la tua testa”. Alla replica di Alice all’offerta di “più the” della Lepre Marzolina –  “Non ne ho avuto per niente”, replica Alice in tono offeso, “non posso prenderne di più” – questa risponde: “Intendi che non puoi prenderne meno”, dice la Lepre Marzolina, “è molto facile prenderne più di niente”.
Ma il trionfo e non la verità è l’obiettivo di Humpty Dumpty. Egli vince i due scambi precedenti restringendo il significato delle parole e delle frasi a livello letterale o denotativo, ma poi le svincola da ogni significato fissato: “Quando uso una parola”, dice Humpty Dumpty in tono di disprezzo, “essa significa solo ciò che ho scelto significhi – né più né meno. La questione è chi deve essere il padrone – questo è tutto”. L’intenzione di Humpty Dumpty non è mai stata quella di scoprire il vero significato di ciò che viene detto, ma solo quella di esercitare una sorta di falsa padronanza.
Questo trattamento delle parole come oggetti di dominio piuttosto che strumenti di scoperta governa molto di ciò che avviene nel Paese delle Meraviglie, come il processo nel quale la Regina di Cuori domanda “La sentenza prima, il verdetto poi”. Le argomentazioni sono dettate da un verdetto predeterminato. Vengono sempre prima le conclusioni, le prove e gli argomenti dopo, all’opposto che in un vero dialogo.

(da George A. Dunn, Brian McDonald, Six impossible things before breakfast, e Daniel Whiting, Is there such a thing as a language?, in Alice in Wonderland and Philosophy)

sabato 19 marzo 2011

la verità su superman

La motivazione base di Superman: perché fa quello che fa? Quali sono le sue ragioni? Cosa lo spinge ad assumere il ruolo di protettore e difensore di tutti? Perché prova incessantemente a fare la cosa giusta? Per i ragazzi di oggi, vista la crescente fama di Batman, Spider-Man e Wolverine, Superman è diventato sempre più irrilevante: l’età moderna ha creato una nuova distanza tra Superman e la sua presunta audience, che ora non può evitare di chiedersi il “perché”, perché mai egli abbia anche solo considerato di intraprendere un percorso di altruismo. È un individuo che potrebbe avere qualsiasi cosa desideri, quindi perché impiega tutto il suo tempo per prendersi cura degli altri? Bisogna ri-narrare il mito di Superman per il pubblico moderno e rispondere alla domanda su chi egli veramente sia: è un essere alieno ed è probabilmente più solo in questo mondo di chiunque altro mai. E questa è la chiave.
Il desiderio di appartenenza è un aspetto fondamentale della natura umana e Kal-El (Superman) prova lo stesso basilare bisogno di comunità condiviso da tutti quelli che lo circondano. «La nostra più profonda paura è di essere potenti oltre misura. Chi sono io per essere brillante, meraviglioso, talentuoso, favoloso? Noi siamo fatti per brillare, per manifestare la gloria che è dentro di noi. E quando lasciamo la nostra propria luce risplendere, diamo inconsciamente agli altri il permesso di fare lo stesso. Quando ci liberiamo delle nostre stesse paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri» (Marianne Williamson, A Return to Love: Reflections on the Principles of “A Course in Miracles”). Come si connette Kal-El con il mondo intorno a lui? Non voltando le spalle alla sua eredità aliena, ma abbracciandola: solo agendo nel pieno del suo potenziale, piuttosto che nascondendosi nelle retrovie dietro un paio di occhiali finti, egli può autenticamente partecipare nel mondo. Solo essendo apertamente kryptoniano può anche essere terrestre. Quando vive come chi veramente è, pienamente e autenticamente, egli occupa il giusto posto nella comunità, nella quale può infine trovare appartenenza e soddisfazione. Indossando un’uniforme che con orgoglio celebra e onora la sua razza – essendo realizzata sulla base della bandiera che i suoi genitori gli hanno lasciato per accompagnare il suo viaggio – vola nei cieli saldo e senza vergogna.
Il paradosso risultante è che Superman può essere un lampante esempio del valore dell’eroismo altruistico, ma realizza ciò agendo nel proprio stesso interesse personale. Accanto al genuino altruismo c’è una sana autocoscienza, i propri bisogni interni si bilanciano con i bisogni degli altri in una maniera di cui beneficiano tutti. Superman è il vero e autentico individuo che accetta chi è nel profondo, celebrando questo vero sé e poi usando tutta la sua potenza per il bene tanto degli altri quanto suo.

(da Mark Waid, The real truth about Superman: and the rest of us, too, in Superheroes and philosophy)

 

venerdì 18 marzo 2011

platone, nietzsche, popper e il mito del pipistrello

Il Cavaliere Oscuro, quarto episodio della serie di film ispirata all'eroe dei fumetti Batman, ha tutto quello che è possibile trovare in un film. La struttura classica di eroe e deuteragonista è ovviamente lì, impersonata da Batman e Joker. Non manca nemmeno il coro della tragedia greca, rappresentato dai due interlocutori dell'Uomo-pipistrello, il maggiordomo Alfred e il manager Lucius. Gli attori sono belli e carismatici, c'è una storia d'amore e non manca il Rocambole, con inseguimenti, esplosioni, voli notturni, botte da orbi a metà tra 007 e un videogioco. Le scene sono girate magistralmente e la storia alterna suspense, imprevisti, ironia, tensione.
Volendo proprio divertirsi in percorsi ipertestuali, sbizzarrendosi a fare collegamenti, Il Cavaliere Oscuro può rappresentare una grande metafora della lotta tra Sistemi Filosofici. In che senso?
Ebbene, in questo film, si presentano tre diverse visioni della vita. Harvey Dent, il nuovo Procuratore distrettuale, ha le idee chiare sul Bene e il Male, sulle regole da seguire, ed è pronto al sacrificio personale. Joker è un anarchico pazzoide: non vuole i soldi né il potere, ma si diverte uccidendo senza freni morali, con grande teatralità e intelligenza. Batman e il tenente Gordon ammirano Dent, sanno più o meno qual è il Bene cui tendere, ma si rassegnano a sporcarsi le mani, a utilizzare mezzi a volte non ortodossi, mantenendo un difficile equilibrio tra regole inviolabili e adeguamento dei mezzi ai fini.
È un confronto tra titani: Platone, Nietzsche e Popper si combattono in un agone in cui idealismo, nichilismo nella sua variante decostruttivista ed empirismo critico sono i vessilli.
Joker è allo stesso tempo Dadà e Derrida, il filosofo poststrutturalista francese. Derrida, che si ispira a Nietzsche, Freud e Heidegger, afferma che la filosofia occidentale è sempre andata alla ricerca di un Senso ultimo, attraverso la contrapposizione binaria di due elementi di cui uno buono e l'altro decadente (logos e scrittura è l'accoppiata che più lo intriga). Tutto sbagliato, non c'è senso, viviamo in una aporia senza un Centro di Gravità e concetti come verità, essenza, presenza, la soggettività dell'io vanno demistificati. Ma questa aporia non è negativa, è «la gioiosa affermazione del gioco del mondo e dell'innocenza del divenire». Senza freni, giocoso, immorale, esistente in quanto creatore al di sopra degli altri, in una parola, Joker.
Dent è un anziano Socrate, il più platonico. Alla ricerca del Bene ultimo, sa che il mondo terreno, quello quotidiano, è una pallida imitazione di quello delle Idee, l'Iperuranio dove risiede la Giustizia-insé. Ma lui, Filosofo-Giustiziere cerca di raggiungerlo, pronto al martirio pur di non commettere ingiustizia. Peccato che quando il sistema dei puri crolla, il puro possa diventare massimamente impuro.
Infine abbiamo Popper e tutta la cricca di empiristi per lo più anglosassoni e scozzesi come David Hume. Essi vivono tra conseguenze inintenzionali dell'operato umano e se ne rendono conto. Batman assesta colpi alla Mafia, ma scatena la violenza incontrollata di Joker. Gordon si serve dei poliziotti più efficienti chiudendo un occhio sulla loro corruttibilità e ottiene perciò dolori e sconfitte. E i due non sono nemmeno sicuri del Fine Ultimo: una Gotham perfetta? Non si arrischiano a immaginarla, ricercano tra tentativi e errori un metodo, falsificabile e senza garanzia di permanenza («Il fatto che il Sole sorga ogni giorno non ci assicura che sorgerà domani» avrebbe chiosato Hume), ma la loro filosofia è proprio questa, una ricerca senza fine, cercando di violare il meno possibile i diritti degli altri (che non coincidono necessariamente con il Diritto Positivo).
Non vi convince? Beh, guardate dentro voi stessi: ognuno di noi ha dei momenti in cui si sente nel Giusto e si aggrappa a un suo Centro di Gravità, altri che lo portano a trasgredire e giocare, trovando in se stesso, piccolo superuomo, l'arte creatrice che lo esalta. E poi, nella maggior parte del tempo, si attiene a dei principi di buon senso e umanità, imparando dai propri sbagli e cercando vie nuove.
Questa tripartizione Platone la identificava nell'anima appetitiva, in quella irascibile e in quella razionale. Freud nell'Ego, Superego ed Es. Chi non ha voglia di rileggere questi Maestri del Pensiero può però andare a vedersi Il Cavaliere Oscuro: come avrebbero detto anche loro, «it's a great fun».

(da Alessandro De Nicola, Platone, Nietzsche, Popper e il mito del Pipistrello, su "Il Sole 24 Ore" del  23 luglio 2008)

mercoledì 16 marzo 2011

follia e nichilismo

Kefka, il nemico in Final Fantasy VI, è uno dei personaggi più filosoficamente densi nel mondo dei video giochi. Secondo Michel Foucault, in Storia della follia nell'età classica, durante il Medioevo le comuni caratteristiche della follia erano spesso viste come segni di una velata saggezza: c’era una nozione più positiva di follia. Foucault è convinto che una trasformazione da velata saggezza a follia sia iniziata con le visioni cristiane dell’apocalisse. Le allusioni bibliche all’incapacità umana di comprendere le ragioni di Dio hanno condotto a ritenere che quelli che si fossero avvicinati troppo a questa comprensione sarebbero stati condotti alla follia. Verso il XVII secolo, i folli erano temuti perché si supponeva che fossero stati ridotti all’insanità per essersi imbattuti in segreti nascosti sull’universo e su un’apocalisse prossima a venire. Se prendiamo in considerazione questo, allora il processo di fusione di Kefka con la Magicite potrebbe avergli donato una rivelazione di oscuri segreti e visioni dell’apocalisse. La paura di ciò che accadrebbe se gli dei della magia dovessero ritornare dà origine alla nozione di follia nel gioco, nella stessa maniera in cui la paura per l’apocalisse cristiana ha creato l’etichetta di follia alla fine del Medioevo. Kefka è rapidamente etichettato come folle perché quelli intorno a lui temono le conoscenze di cui potrebbe essere in possesso.
Prima che la storia si concluda Kefka accumula un potere divino e scopre che non c’è un significato ultimo dietro l’esistenza del mondo. Così si organizza per distruggerlo. Quando raggiunge l’apice del potere razionale disponibile sia per gli uomini sia per gli dei, all’improvviso scopre che non esiste alcuna giustificazione per la vita.
Etichettare Kefka come folle è in realtà solo un tentativo di ignorare quello che potrebbe essere un valido punto di vista. Kefka, raggiunto l’obiettivo di un potere e una conoscenza definitivi, va incontro ad un’interessante metamorfosi: non più in vestito da giullare, egli ha invece assunto un’angelica forma alata e il suo atteggiamento è quello di un distaccato stoicismo. Kefka afferma che non c’è alcun significato nel mondo, nessuna ragione che giustifica l’esistenza. Gli Eroi del gioco provano ad argomentare contro Kefka e spiegargli ciò che dà alle loro proprie vite un senso, ma Kefka non è diventato irrazionale o illogico, piuttosto arazionale, non contrario alla ragione ma al di là del dominio di essa. Gli Eroi che provano a convincere Kefka che l’esistenza ha una giustificazione, invocano desideri ipotetici di cui ormai Kefka è sprovvisto.
Mentre la vita può mancare di uno scopo oggettivo, ognuno di noi è venuto al mondo con la capacità di decidere cos’è significativo per noi. La comprensione di Kefka può fare un po’ di luce sulla connessione tra il famoso detto di Nietzsche “Dio è morto”, l’intima insensatezza della morale e dell’esistenza, e il nietzschiano concetto di Oltreuomo (Übermensch). Il rapporto di Kefka con il resto dell’umanità non è caratterizzato da animosità: dopo la sua ascensione a uno stato di divinità, egli non pronuncia una sola parola d’odio contro i protagonisti del gioco. L’umanità prega per ottenere compassione, ma questa è qualcosa di cui Kefka manca, semplicemente perché è una virtù creata da quelli cui manca il potere, una virtù razionalmente non necessaria alla superiorità, allo stato di divinità, ad una morale aristocratica e nobile.
Kefka è allora un Oltreuomo? Il personaggio di Nietzsche che proclama la morte di Dio, dichiara di essere giunto troppo presto e che il mondo non è ancora pronto per affrontare le conseguenze di un’esistenza nuova e senza Dio. Questa mancanza di preparazione è la vera preoccupazione che Kefka incarna: che senza Dio non c’è scopo o significato per l’esistenza. La nostra paura è che un mondo nel quale Dio sia stato scacciato o rimpiazzato dalla sola ragione sia un mondo in cui l’unico esito possibile sia il desiderio nichilistico di distruzione di ogni cosa. Nietzsche vuole più di quanto Kefka possa offrire all’umanità. Il vero Oltreuomo è capace non solo di scacciare Dio e la vecchia morale, ma di superare anche il nichilismo: questo uomo del futuro redime non solo dall’ideale che ha regnato fino ad ora, ma anche da ciò che potrebbe crescere dopo di esso, la grande nausea, la volontà di nulla, il nichilismo… è un anticristo e un antinichilista.
La lotta contro Kefka conduce i protagonisti faccia a faccia con l’influenza negativa della magia – della religione, del controllo, dell’autorità – e li costringe ad imparare a vivere senza di essa. È la battaglia più grande: la battaglia di trovare un senso quando non ne è dato nessuno.

(da Kylie Prymus, Kefka, Nietzsche, Foucault: madness and nihilism in Final Fantasy VI, in Final Fantasy and Philosophy)

 

martedì 15 marzo 2011

un'opera d'arte televisiva

More about La filosofia di LostCi sono opere d’arte visiva contemporanea che disertano musei, gallerie, per occupare i piccoli schermi: sono la new wave delle serie TV americane – nuova e interessantissima forma di pop art tele-visiva che ha la forza della grande narrazione. Una narrazione al contempo sperimentale e popolare, che si espande su differenti piattaforme mediali. Una narrazione transmediale.
Crogiolo di cultura pop e cultura alta portate al punto di fusione metafisica, Lost è al contempo disaster movie e fantascienza, Jules Verne e Stephen King, Bibbia e Odissea, romanzo sperimentale e saggio filosofico – e lavoro collettivo di scrittura: una scrittura serrata e potente, frutto di uno sforzo comunitario, esaltata da una regia di altissimo livello. «Lost è un capolavoro, è una riflessione sull’Occidente, nella sua forma più angosciata e irriducibile», ha scritto Aldo Grasso. Si potrebbe parlare di philosophical drama. La natura filosofica di Lost non si esaurisce nel gioco dei nomi di famosi filosofi attribuiti ai personaggi (Locke, Rousseau, Hume, Bentham) o in quello di qualche filosofo esplicitamente citato (Nietzsche). Essa attraversa e permea i diversi strati di una serie concepita come scavo archeologico in cui ogni stagione procede più a fondo. La filosofia lavora al cuore di Lost nella forma di una serie di questioni fondamentali: Esiste il mondo esterno o è una mera illusione? Che cos’è la verità? Che cosa significa con-vivere? La paradossale formula lacaniana secondo cui «a dirla tutta, la verità, non ci si arriva» è la formula che meglio descrive l’enigma di Lost. Se, come scriveva Martin Heidegger, «l’enigmatico stimola la nostra capacità di domandare», Lost porta questa sfida ai limiti del domandare stesso.  
Lost mette in scena l’enigma della verità, sprona a pensare un’altra idea di verità: una verità che, nel suo mostrarsi, lascia sempre un fondo di nascondimento e di mistero che devi imparare a custodire come tale. Ma per superare questa prova devi imparare a errare, a perderti nel cuore della foresta. Lost è il nome di una verità che al fondo resta in appropriabile e resiste alla volontà di sapere. Lost è una vera esperienza partecipatoria, aperta all’interpretazione, rende il pubblico creativo, è una macchina per produrre teorie e interpretazioni nella forma di supplementi di scrittura, e una sfida continua a trasgredire quelli che Eco, in polemica con Derrida, ha definito «limiti dell’interpretazione». Perché Lost sprona all’interpretazione come deriva e produzione di testi. Per Derrida la presenza del senso, quella presenza che dovrebbe mettere fine al cammino dell’interpretazione e dell’interrogazione, è un mito, non esiste: per questo non c’è fine alla possibilità dell’interpretazione.

(da Simone Regazzoni, La filosofia di Lost)

lunedì 14 marzo 2011

sei cose impossibili prima di colazione

Le avventure di Alice la pongono in contrasto contro quello che potremmo chiamare un non-senso tollerabile e uno intollerabile. Ciò che rende alcune bizzarre contraddizioni tollerabili è che esse possono essere dominate con un po’ di prove ed errori. Ci sembrano insensate perché la nostra esperienza ci impone dei preconcetti su ciò che può e ciò che non può essere. I filosofi distinguono ciò che è logicamente impossibile – la negazione di ogni verità necessaria – dalle questioni di fatto: «Il contrario di ogni questione di fatto è ancora possibile», osserva David Hume, poiché non è inconcepibile che il mondo avrebbe potuto essere radicalmente diverso da quello che è. Se i bambini possano trasformarsi in maiali è una questione cui non si può rispondere attraverso un perentorio giudizio basato su ciò che crediamo sia possibile o no, ma solo attraverso un’investigazione di come il mondo in realtà funziona, indagine preferibilmente condotta da qualcuno che “bruci” di curiosità tanto quanto Alice. La curiosità di Alice, come la sua volontà di scartare i preconcetti non verificati, è un’importante virtù intellettuale. Armata di una salda curiosità, una risoluta fede nella ragione, e un’impavida volontà di mettere alla prova e scartare ogni assunto, la nostra eroina esce regolarmente vincitrice nella sua guerra contro il non-senso.
 Nel saggio The Ethics of Elfland, Gilbert Keith Chesterton, uno scrittore di fantasy e gialli, osserva che c’è una grande differenza tra il meraviglioso e l’irrazionale: «Non si può immaginare che 2+1 non faccia 3. Ma si possono facilmente immaginare alberi che non diano frutti, ma candelieri d’oro o tigri appese per la coda. Bisogna mantenere una netta distinzione tra la scienza delle relazioni mentali, nella quale ci sono veramente delle leggi, e la scienza dei fatti fisici, in cui non ci sono leggi ma solo bizzarre ripetizioni». Come Hume aveva evidenziato oltre un secolo prima, siamo così abituati a certe regolarità nella natura che a volte erroneamente supponiamo che esse facciano parte del necessario e inalterabile tessuto della realtà. È una delle virtù di Alice quella di non cadere vittima dell’errore di pensare che ogni questione di fatto sia necessaria.

(da  George A. Dunn, Brian McDonald, Six impossible things before breakfast, in Alice in Wonderland and Philosophy)

domenica 13 marzo 2011

dr. house, ethical division (2di2)

L’agire sregolato di House obbedisce sempre all’ingiunzione di un dovere iper-etico: salva il tuo paziente. Un’ingiunzione che ha la forma di una passione pura, assoluta. C’è un dovere incondizionato, per House, ed è quello di salvare la vita al suo paziente, sacrificando tutto il resto, anche l’etica, al rispetto di questa sola cosa che si confonde direttamente con lui, che fa corpo con il corpo di House e il suo dolore (la cosa di House è impensabile senza il suo dolore proprio come la legge morale di Kant è impensabile senza il dolore poiché deve produrne il sentimento), e lo esclude così dal “cerchio dei normali” che dialogano, argomentano, spiegano, contrattano, e sanno rendere conto di quello che fanno. House è l’incarnazione di questa sola cosa che ha la forma di un imperativo iper-etico. House condivide con Kant l’idea di un imperativo incondizionato cui occorre sacrificare tutto, ma mentre in Kant la forma dell’imperativo non può che essere universale, per House essa è assolutamente singolare. E se in Kant si tratta di sacrificare al dovere le passioni, per House si tratta di sacrificare al dovere assoluto e iper-etico il dovere etico.
Ogni decisione degna di questo nome deve sempre affidarsi, al fondo, alla creatività di un’invenzione. Ogni volta non si sa, in verità, che cosa sia giusto decidere. E tuttavia bisogna rispondere, nell’urgenza, sempre ora: «Giusto e sbagliato esistono. E il fatto che non sappiate cosa è giusto, e magari non abbiate nemmeno modo di saperlo, non vi solleva dalla responsabilità». Rispondere nel modo giusto all’imperativo significa, per House, reinventare ogni volta la regola. L’etica di House è un’etica della situazione e della risposta singolare, il che significa che il momento della decisione che risponde all’ingiunzione della salvezza non è regolato, ma è una follia. Secondo Derrida una decisione etica degna di questo nome non può che essere una follia: non può che essere presa nella notte del non-sapere e della non-regola, nell’urgenza, e non può e non deve essere né semplicemente la conseguenza, o l’effetto, del sapere né la mera applicazione di una regola. «“L’istante della decisione è una follia” dice Kierkegaard. È vero soprattutto riguardo all’istante della decisione giusta» (Forza di legge). Derrida afferma che una decisione che si limiti ad applicare una regola non è una vera decisione e in realtà non decide nulla. Una decisione etica eccede ogni regola e ogni sapere, decide nell’indipendenza rispetto alla regola e al sapere e, al fondo, non sa e non può rendere conto di ciò che fa. La responsabilità è, al fondo, solo responsabilità assoluta e segreta di fronte all’altro, una responsabilità che non può giustificarsi al cospetto dell’etica come insieme di norme né al cospetto della legge. Da quando sono in rapporto con l’altro, con la domanda o la chiamata dell’altro, io so che non posso rispondervi se non sacrificando l’etica e tutti gli altri: per rispondere all’uno occorre non rispondere all’altro. È questo un paradosso insolubile della responsabilità. Si può rispondere sempre e solo a una sola chiamata, quella dell’altro, trascurando e abbandonando tutti gli altri. I cercapersone che squillano continuamente in ogni puntata della serie sono proprio l’ingiunzione della cosa iper-etica che impone di abbandonare tutto, seduta stante, tutti gli altri, senza dare spiegazioni, senza scusarsi: «Devo andare».

(da Simone Regazzoni - Blitris 1 -, L'iper-etica di House, in La filosofia del Dr. House

HOUSE: Ho chiesto informazioni, è un ottimo medico. Pensi che sia migliore di me? Se credi che sia migliore di me come medico va con lui, altrimenti declina gentilmente la proposta.
FOREMAN: Per stare qui a sopportare sarcasmo e umiliazioni?
HOUSE: Quando mai ti ho umiliato?
FOREMAN: Ma continuamente! Ogni volta che sbaglio.
HOUSE: Ti ritengo responsabile, e allora?
FOREMAN: Il dottor Hamilton perdona. Sa sorvolare sugli errori.
HOUSE: Non ha detto che ti perdonava, ha detto che la colpa non era tua.
FOREMAN: E allora?
HOUSE: E invece sì che lo era! Hai rischiato, hai avuto un gran coraggio. Sì, d’accordo, avrai sbagliato, ma hai fatto qualcosa di grande, e io penso che tu ne debba andare orgoglioso! È in questo che io e lui siamo diversi! Per lui questo è un lavoro che come va va, per me il nostro lavoro ha molta importanza! Lui dorme bene la notte e non dovrebbe!

sabato 12 marzo 2011

dr. house, ethical division (1di2)

Il Dr. House non è, semplicemente, un personaggio con caratteristiche d’eccezione attorno a cui è stata costruita una serie televisiva, bensì, in primo luogo, una figura estetica d’eccezione. C’è una differenza tra personaggio e figura estetica, benché entrambi i concetti appartengano al campo della fiction. Con il concetto di figura estetica Deleuze e Guattari definiscono le grandi figure della letteratura capaci di suscitare effetti che eccedono le affezioni e le percezioni ordinarie. A proposito del capitano Achab, Deleuze e Guattari parlano, usando una formula melvilliana, di «un faro che strappa all’ombra un universo nascosto» (Che cos’è la filosofia?). non è forse questo l’effetto spaesante e perturbante che suscita House nello spettatore, quasi la sua figura ci mettesse di fronte a qualcosa che la rassicurante normalità del mondo oscura e occulta? Inoltre, la figura di House è stata plasmata su un modello letterario, quello di Sherlock Holmes, e, cosa non meno importante, lo stesso House si paragona, e viene paragonato, proprio al capitano Achab, monomaniaco ossessionato anch’egli da una sola cosa. C’è una piega letteraria che attraversa la figura di House, qualcosa che lo differenzia da altri personaggi filmici e costituisce la speciale stoffa della sua eccezionalità. Accade così che gli innumerevoli suoi difetti e vizi si trasfigurino, e diventino i tratti peculiari dell’individuo eccezionale al di là del bene e del male, cui si concede di non rispettare nessuna regola.
La figura estetica di House, nella sua critica effettiva e radicale, de costruttiva della morale, è a suo modo una figura etica. Cosa che trova un suo preliminare e immediato riscontro nel sentimento di ammirazione che l’agire di House suscita nello spettatore, benché contrasti con il senso morale comune. Per quanto possa sembrare paradossale, sottilmente perverso o platealmente immorale, House è la figura di un’etica che elude i paradigmi classici dell’etica e rivela interessanti affinità, da un lato, con la figura del Singolo che Kierkegaard contrappone all’eroe quale figura etica e, dall’altro, con le teorie elaborate da alcuni filosofi contemporanei, in particolare da Jacques Derrida e Alain Badiou (L’etica. Saggio sulla coscienza del Male), che, pur nella loro diversità, mettono in crisi l’idea che il comportamento etico debba essere costituito da atti e decisioni subordinati a una regola universale e al sapere. Il comportamento dell’eroe, anche quando disobbedisce a regole o leggi, è un comportamento etico, perché l’eroe disobbedisce a leggi ingiuste, quelle che non garantiscono il bene universale ma sanciscono privilegi, producono disuguaglianze o generano oppressione. House, invece, non trasgredisce le regole quando le ritiene ingiuste, piuttosto non ne tiene conto: è un singolo che si pone al di là delle regole generali per rapportarsi, senza la mediazione di tali regole, a un’altra singolarità assoluta: il Singolo sospende l’etica e le sue regole perché il suo fine è mettersi in rapporto con l’altro assoluto al di là dell’universale e senza mediazioni. Per questo, dice Kierkegaard, l’occhio dello spettatore riposa tranquillo sull’eroe, mentre il Singolo suscita ammirazione e spaventa. Il Singolo fuoriesce dalla sfera dell’etica come generale, è un solitario che non può condividere con nessuno le proprie scelte. «Umanamente parlando, egli è folle e non può farsi comprendere da nessuno» (Timore e tremore). Il Singolo risponde a una sola cosa: all’ingiunzione di un dovere assoluto come dovere che lo lega all’altro assoluto in quanto altro nella sua singolarità. Che cosa chiede questo dovere assoluto? In primo luogo di sacrificare l’etica. Commentando il testo di Kierkegaard, Derrida ha affermato che l’assoluto di questo dovere presuppone che ogni dovere etico, ogni responsabilità e ogni legge vengano ricusati, traditi, trascesi. Questo dovere si pone dunque, paradossalmente, al di là del dovere e ingiunge di non rispettare il dovere etico. Ecco la sua radicalità e il suo paradosso: «È un dovere non rispettare, per dovere, il dovere etico» (Donare la morte). Questo paradossale dovere ingiunge di non cedere alla tentazione del dovere etico.

(da Simone Regazzoni - Blitris 1 -, L'iper-etica di House, in La filosofia del Dr. House)

venerdì 11 marzo 2011

un videogioco scrivibile

La molteplicità di personaggi giocabili permette ai giocatori più strade all’interno di un testo. Roland Barthes chiamerebbe Final Fantasy VII un testo scrivibile, perché i giocatori assumono un ruolo attivo nel produrre la narrazione del gioco attraverso la propria personale esperienza del gioco. Barthes credeva che gli scrittori dovessero riempire i propri testi con significanti, permettendo ai lettori di interpretarli da soli e così produrre il testo. I significanti contenuti nei personaggi di FFVII sono quegli elementi che possono essere manipolati dai giocatori. Potremmo chiamarli adattamenti (customizations). Questi variabili adattamenti non solo incrementano ulteriormente il numero di significanti contenuti da ogni personaggio, ma inoltre consentono ai giocatori di alterare questi significanti per adattarli ai propri fini.
I designer di giochi diventano “architetti narrativi” che progettano e costruiscono spazi di gioco nei quali i giocatori possano sperimentare narrazioni.
Crisis Core – prequel di FFVIIè un gioco in cui i giocatori sanno che i personaggi giocabili dovranno morire allo scopo di completare la narrazione. Questo significa che il gioco non può essere battuto. La ricompensa ultima nel giocare Crisis Core non è sconfiggere il gioco, ma sperimentare il mondo di Gaia attraverso gli occhi di Zack e interpretare il testo attraverso la sua collezione di significanti. È l’espressione definitiva del testo scrivibile di Barthes – un testo che il fruitore vuole espandere rivalutando il nucleo narrativo attraverso altri punti d’ingresso.

(da Benjamin Chandler, The spiky-haired mercenary vs. the French narrative theorist: Final Fantasy VII and the writerly text, in Final Fantasy and Philosophy)

 

giovedì 10 marzo 2011

nietzsche in wonderland

Secondo Friedrich Nietzsche noi dobbiamo, come gli artisti, essere i creatori del nostro proprio senso, noi dobbiamo costruire un mondo significante per poter sopravvivere al caos e alla follia che ci circonda. Allo scopo di dare forma ad una prospettiva noi creiamo una “verità”, benché ci convinciamo di averla scoperta. Come gli artisti, scegliamo e selezioniamo le nostre idee sul mondo. Nietzsche sostiene che siamo sempre in pericolo di cadere in un abisso, perché ciò che assumiamo come fondamento, la stabile e immutabile realtà, è una pura finzione. Quelli che sono consapevoli di questa assenza di fondamento li chiama “spiriti liberi”, che danzano presso l’abisso perché non danno niente per garantito. Contro la metafisica e il dogmatismo, che presentano una interpretazione del mondo come l’unica legittima, per Nietzsche non c’è alcuna differenza tra apparenza e realtà, questa non è qualcosa oltre le apparenze; piuttosto noi organizziamo le nostre apparenze in una prospettiva che ci consenta di sopravvivere e dare un senso a quello che altrimenti non è che un flusso informe, o ciò che Nietzsche chiama combinazione di “volontà di potenza”. La realtà non è altro che la totalità di queste combinazioni.
Quando Bruco chiede ad Alice, “Chi sei tu?”, Alice trova difficile dare una risposta adeguata, perché riconosce di essere cambiata diverse volte da quando si è alzata quella mattina. Secondo Nietzsche tutti noi affrontiamo una tale crisi di identità, suggerendo che non esiste un vero sé o ego. L’agente, dice Nietzsche, è una pura finzione aggiunta all’azione. Come non c’è un lampo oltre il lampeggiare – solo il lampeggiare stesso – così non c’è un sé al di là delle azioni, e nessuna vera distinzione tra essere e divenire. Alice prova a spiegare al Bruco che è emotivamente difficile passare attraverso dei grandi cambiamenti: “Quando ti dovrai trasformare in una crisalide – lo farai un giorno, lo sai – e dopo di ciò in una farfalla, penso che ti sentirai un po’ strano, no?”, chiede al Bruco. Ma il Bruco non la pensa così, come se sapesse che il sé è solo un’illusione. Con un po’ di istruzioni da parte del Bruco, Alice impara a modulare la sua taglia (e la sua prospettiva) mangiando dai diversi lati del fungo. Allora Alice sembra uno degli spiriti liberi di Nietzsche, assume il controllo delle sue prospettive e non finge che esse siano in alcun modo un accurato rispecchiamento di come le cose sono veramente. Gli spiriti liberi sanno che il loro stile di vita è una loro propria creazione e che non è il solo possibile.
Più siamo in grado di controllare le nostre prospettive, più il mondo assume per noi un senso. Quando Alice vede il Gatto del Cheshire su un albero, gli chiede un consiglio: “Vorresti dirmi, per favore, che strada dovrei prendere da qui?”. “Questo dipende molto da dove vuoi andare”, risponde il Gatto. La risposta del Gatto del Cheshire riconosce che noi siamo gli artisti e i creatori delle nostre vite quando selezioniamo le nostre prospettive.

(da Rick Mayock, Perspectivism and tragedy: a nietzschean interpretation of Alice's adventure, in Alice in Wonderland and Philosophy)

mercoledì 9 marzo 2011

indovinelli nell'oscurità

Visto che una delle forme più antiche di filosofia è l'enigma, come sostiene tra gli altri Giorgio Colli ne La nascita della filosofia - nonché io nella mia tesi di laurea Le frecce di Apollo. La cultura dell'enigma nell'antica Grecia -, lotta umana per la sapienza dal carattere prettamente agonistico, ecco un po' di oscuri indovinelli che si lanciano Bilbo e Gollum - «porre, e talvolta risolvere, gli indovinelli era stato l'unico gio­co cui avesse mai giocato con altre buffe creature che sedevano nelle loro caverne in un passato lontano lon­tano, prima di perdere tutti i suoi amici e di essere scacciato via, solo, e di scendere furtivamente nelle tenebre, sotto le montagne» - ne Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien, per conoscersi/studiarsi con prudenza e timore appena si incontrano nel buio delle caverne sotto la montagna degli orchi.

Radici invisibili ha,
più in alto degli alberi sta,
lassù fra le nuvole va
e mai tuttavia crescerà.

Trenta bianchi destrier su un colle rosso battono e mordono, ma nessun si è mosso.

Non ha voce e grida fa, non ha ali e a volo va, non ha denti e morsi dà, non ha bocca e versi fa.

Un giorno un occhio in un azzurro viso vide un altr'occhio dentro un verde viso: «Quell'occhio è come me, però è laggiù, mentre il mio occhio se ne sta quassù».

Vedere non si può e neanche sentire, fiutare non si può e neppure udire. Sta sotto i colli, sta dietro le stelle ed empie tutti i vuoti, tutte le celle. Per primo viene, ultimo va, a vita e a riso termine dà.

Senza coperchio, chiave, né cerniera uno scrigno cela una dorata sfera.

Vive senza respirare, freddo come morte pare, beve ma non è assetato, non tintinna corazzato.

Questa cosa ogni cosa divora, ciò che ha vita, la fauna, la flora; i re abbatte e cosi le città, rode il ferro, la calce già dura; e dei monti pianure farà.

lunedì 7 marzo 2011

harry potter e il reincantamento del mondo

Tra le icone del nostro tempo ce ne sono alcune che esprimono un imponente reincantamento del mondo, il ritorno della fantasia, del fantastico, della fantasticheria. Ormai la fede ingenua nel Progresso e nella sua marcia trionfale non convince più nessuno; i Lumi settecenteschi tendono ad essere soppiantati dal chiaroscuro dell'esistenza.
Harry Potter incarna la figura antica e sempre nuova del fanciullo eterno (puer aeternus), una creatura in perenne divenire che ad ogni passo affronta una nuova avventura. Così, a differenza di chi si accontenta di chiedere un'esistenza protetta e una vita a rischio zero, quel divino briccone che è il maghetto di Hogwarts viene a ricordarci che l'uomo è perennemente tormentato dalla sete di infinito, dal desiderio di un Altrove. Per lui l'avventura è un elemento essenziale della natura umana, con lui la ricerca del Graal è sempre di attualità.
I libri e i film in cui compare Harry Potter illustrano la presenza di un meraviglioso nel quale la paura è strettamente intrecciata alla fascinazione. Dove avviene l'incontro? A Hogwarts, una scuola, ma una scuola di magia. L'educazione lascia il posto a un percorso iniziatico, a un continuo rimettersi in cammino nel quale le prove e le insidie non possono mai dirsi completamente superate. Harry Potter è il simbolo delle giovani generazioni che, nella loro straordinaria voglia di vivere, non danno più ascolto a nessuno. Sanno bene, di un sapere incorporato e non teorico, di una conoscenza fatta di esperienze, sanno bene che la vita non somiglia a un fiume calmo: vi sono vortici, gorghi e altro ancora. Tutte cose che bisogna sapere affrontare con eleganza, con disinvoltura e anche con insolenza. Ed è quello che fa Harry, eterno apprendista stregone, adolescente che mette in crisi la sclerosi delle istituzioni invocando la forza del sogno. In questo senso egli è in accordo col giovanilismo imperante che prende alla lettera la formula di Nietzsche: «Diventa quello che sei senza mai cessare di essere un apprendista».
Lo sfregio che segna la fronte di Harry è lo stesso che ritroviamo nei tatuaggi, nei piercing e negli altri segni visibili sempre più di moda nelle nostre società. Esso ricorda che la parte oscura dell'animale umano è tutt'altro che superata e che bisogna saperci convivere per raggiungere una forma di interezza.

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