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domenica 31 luglio 2011

calvin&hobbes vs naruto

sabato 30 luglio 2011

proverbio cinese

Per quanto possano essere profondi gli abissi in cui nuotano, i pesci possono pur sempre essere pescati; e per quanto alti volino nei cieli, gli uccelli possono pur sempre essere colpiti. Ma quello che si cela nel profondo dell'animo umano è inafferrabile.
(da Inferno e Paradiso, vol. 5)


venerdì 29 luglio 2011

d'oh!

giovedì 28 luglio 2011

il giusto e l'ingiusto

"È un'ingiustizia, però!", ripeteva Calimero, come ci ricorda Jean-Luc Nancy all'inizio della sua piccola conferenza – perché rivolta ai bambini – Il giusto e l'ingiusto, nella quale indaga, appunto, l'idea del giusto. 
Subito, ci dice il filosofo francese, «se l'idea di giustizia, di ciò che è giusto, si confondesse con la legge, qualcosa non quadrerebbe. La legge non è necessariamente giusta. Questo», però, «non vuol dire che ciascuno di noi possa decidere che non seguirà la legge perché non la ritiene giusta. Dunque, abbiamo l'idea di una giustizia al di là delle leggi, forse addirittura di una giustizia per la quale non vi può essere legge, una giustizia che non può essere racchiusa in una legge, una giustizia superiore a qualunque legge».
Il modello che subito viene in mente è quello del giustiziere – da Schwarzenegger e Van Damme ai videogiochi come Street Fighter e i supereroi dei comics –, che «si fa giustizia da sé, al di là della legge» perché «la legge è impotente», che pone la sua forza al servizio di una giusta causa per «dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, ciò che gli spetta».
Ma «cosa, effettivamente, è dovuto a ciascuno?». Secondo Nancy dietro il termine "ciascuno" convivono due principi: uno di uguaglianza ("ciascuno" come tutti gli altri) e uno di differenza o singolarità ("ciascuno" come proprio di ogni persona «in quanto egli è un essere singolare, in quanto egli è unico»). «Uguaglianza e singolarità sono inseparabili nell'idea di giustizia e, al tempo stesso, possono entrare, se non in contraddizione, forse, quanto meno in conflitto. Questo ci insegna una prima cosa importantissima: il giusto e l'ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri» e «non può mai esservi giustizia per uno solo. Ecco perché farsi giustizia da sé non ha alcun senso. Tuttavia è certamente vero che ciascuno di noi, nella propria singolarità, ha diritto a un riconoscimento assolutamente personale».
Riconosce, però, Nancy che «non riusciremo mai a dire interamente, integralmente, esattamente cosa è dovuto a ciascuno in particolare», perciò «la giustizia è inevitabilmente senza esattezza o senza aggiustamento». L'unica cosa possibile e necessaria è che «ciascuno sia riconosciuto nella sua singolarità», l'unica cosa che è dovuta a ciascuno «è quello che chiamiamo amore. Amare qualcuno vuol dire che lo si considera per quello che è, singolarmente». Per essere giusto ognuno «deve sforzarsi di pensare meglio che può in una direzione che, in fondo, soltanto l'amore può indicargli», deve «essere capace di comprendere che ciascuno ha diritto a un riconoscimento. Questo riconoscimento deve essere infinito, non può avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare interamente, impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre». Essere giusto è «dare a ciascuno ciò che non si sa neanche di dovergli», è considerarlo dotato di un «diritto a un rispetto assoluto».
«Dovete pensarlo da soli, mai nessuno verrà a dirvi: "Ecco cos'è la giustizia assoluta". Se qualcuno potesse dirlo, forse noi non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge. Cosa è veramente giusto, al tempo stesso per tutti e per ciascuno individualmente, non è dato in anticipo: bisogna cercarlo, inventarlo, trovarlo, ogni volta di nuovo. Ce ne vuole sempre di più, non ci si può mai dire che è abbastanza giusto così. Non è mai abbastanza giusto. Pensare questo è già cominciare a essere giusti».

mercoledì 27 luglio 2011

stella del mattino

stella del mattino, wu ming 4Stella del mattino, romanzo solista di uno dei membri del gruppo Wu Ming, narra le intrecciate vicende di un gruppo di studenti di Oxford di ritorno dalla prima guerra mondiale, tutte legate tra di loro dalla presenza di Lawrence d'Arabia il leggendario archeologo divenuto ispiratore e guida della rivolta araba contro l'impero turco e, visto che tra questi studenti spiccano J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis e il poeta R. Graves, dal problema di come conciliare la devastante esperienza appena vissuta con il mestiere e l'arte dello scrivere.
Tolkien sceglie di usare una lingua petolkien signore degli anellir costruire un mondo: egli, da filologo, «amava le parole, ma in un modo privato e peculiare. Erano arcani, enigmi da risolvere, contenevano storie, abbracciavano secoli e continenti. Ogni parola ne suggeriva altre, forse mai pronunciate, ma del tutto plausibili, ancora più dense di significati e rimandi, quindi più vere». Perciò, dopo la guerra, visto che «chi ricostruisce mondi perduti può essere capace di immaginarne di nuovi», egli «carta e inchiostro come roccia e scalpello, carne e sangue» «non aveva trovato un modo migliore per domare i mostri se non trasformarli in creature fiabesche, da relegare oltre lo specchio, nel regno fatato. Glielo consentiva il potere arcano della lingua, l'ancestrale forza evocatrice. Il segreto delle parole». 
Ecco, così, che il racconto de La caduta di Gondolin che «parlava dell'assedio di una roccaforte e dei coraggiosi difensori che avevano sacrificato la vita nel tentativo di salvarla» riguarda più in generale i sopravvissuti a una guerra e quelli che non ce l'hanno fatta; oppure che la storia di Tùrin Turambar «la storia di un fallimento implicito nel peccato stesso di immaginarsi "Turambar", Padrone del Fato» , oltre che richiamare le tragedie classiche come quella di Edipo, non può non ricordare anche le contemporanee vicende di Lawrence d'Arabia.
Pur se l'opera resta di fantasia la coerenza con le biografie dei protagonisti è garantita e la ricostruzione storica è fedele, soprattutto per quanto riguarda il problema della difficoltà di conciliare le spinte colonialiste con il principio di autodeterminazione dei popoli (in questo caso gli arabi) che caratterizzò la prima guerra mondiale.

martedì 26 luglio 2011

l'ultimo insegnante di scienze sulla faccia della terra

Okay, ricapitoliamo. Cosa abbiamo imparato oggi? Abbiamo imparato che il tempo non è una costante, che la materia è malleabile e che la gravità... la gravità può essere sfidata. A volte, almeno. Qualche domanda?
Okay, ricordate di leggere i capitoli 3 e 4! Domani parleremo della legge della gravitazione universale di Newton. In altre parole, getteremo cose dal tetto e le vedremo rompersi.
(da Astonishing: Spider-Man & Wolverine 2, settembre 2010, in Astonishing: Spider-Man & Wolverine 1di3, luglio 2011)



lunedì 25 luglio 2011

88 crazy vs 77 club

domenica 24 luglio 2011

proverbio cinese

Nell'animo di ogni uomo, gli dei hanno creato Cielo e Terra in miniatura
(da Inferno e Paradiso, vol. 2)


venerdì 22 luglio 2011

homer vitruviano

giovedì 21 luglio 2011

l'immaginario in rivolta

mercoledì 20 luglio 2011

lo sguardo di lazzaro

Nel racconto Lazzaro, lo scrittore russo Leonid N. Andreev immagina l'effetto prodotto sugli altri uomini dallo sguardo degli occhi di chi è riuscito a tornare dalla morte: «Uno sconsiderato sollevò il velo. D'un soffio, con una parola buttata là senza intenzione, dissolse il luminoso incanto, nudò la verità in tutto il raccapriccio. Nessuno poté mai render ragione a se stesso dell'essenza orrenda che nel profondo delle nere pupille sue sussisteva immota. Al suo guardare, non ristava già di splendere il sole, non ristava di fiottar la fontana, e permaneva senza nuvole azzurro il cielo natale; ma l'uomo caduco sotto quell'enimmatica fissità non percepiva più la fontana, non riconosceva più il cielo natale. E con ambascia piangeva, o disperatamente si strappava i capelli, forsennato a invocar gente in aiuto. Ma accadeva più spesso ch'egli entrasse in un'agonia di apatica inerzia, e lunghi anni moriva, agli occhi di tutti moriva, moriva incoloro, dinervato, riassorbito di tedio, come albero che inavvertito dissecchi su pietroso terreno. In fissità li guarda, attraverso l'orbite nere delle sue pupille, come da tetri vetri, in fissità guarda sugli uomini lo stesso incomprensibile Aldilà».
Molti osarono sfidare quello sguardo dalla «virtù simile a quella di Medusa», «ma nessuno tornava come era venuto. Un'identica ombra tremenda calava sugli animi e un nuovo aspetto assumeva il vecchio conosciuto mondo. Coloro che avevano ancora velleità di parlare, concretavano i sentimenti loro così: "Tutti gli oggetti visibili e tangibili, divenivano vuoti, inconsistenti, diafani - simili a baglior di penombre nelle tenebre della notte; poiché l'immane buio che occupa tutto il cosmo, non veniva dissipato né dal sole, né dalla luna, né dalle stelle: vestiva anzi la terra d'un incommensurabile velame nero - e come padre l'abbracciava; in tutti i corpi penetrava esso, nel ferro e nella pietra: e solitarie divenivano le particelle della corporeità, non avendo più coesione; e ancor penetrava nell'intimo dell'intimo d'ogni particella, e solitarie divenivano le particelle delle particelle; poiché l'immane vuoto che occupava tutto il cosmo, non veniva riempito dal visibile né del sole, né della luna, né delle stelle: regnava invece sconfinato per ogni dove penetrando, ogni cosa disaggregando, corpo da corpo, particella da particella; nel vuoto allungavano le loro radici gli alberi, ed essi medesimi erano vuoti; nel vuoto, minacciando illusorie cadute, si ergevano templi, case, palazzi, ed essi medesimi erano vuoti; nel vuoto si agitava l'uomo irrequieto, ed egli medesimo era vuoto e inconsistente, come ombra; poiché il tempo non diveniva più, e il principio di ogni cosa si ricongiungeva alla sua fine: si stava appena fabbricando un edificio e picchiavan di martello i costruttori, che eccolo in rovina, e il vuoto sostituiva già le rovine; non faceva in tempo un uomo a nascere che già gli si accendevano i ceri funebri, ed eccoli spenti e già il vuoto in luogo dell'uomo e dei ceri; e in una stretta di vuoto e di tenebra disperato l'uomo tremava davanti all'orrore dell'Infinito"».
Anche uno scultore lo andò a trovare, e l'opera che poi riuscì a realizzare fu «qualcosa di mostruoso, che non rispettava neppur la più elementare delle forme acquisite alla vista, ma non senza un'ambigua allusione a non so qual nuova immagine ignota! Sopra un esile contorto ramoscello o, piuttosto, difforme paragone di esso stranamente di sbieco gravava un cieco amorfo cumulo senza coesione di un'indefinibile qualcosa, che precipitava in dentro, che s'arrovesciava in fuori, specie di squallidi balzi in franamento verso uno sforzo impotente di sfuggire a se stessi. Poi, come per caso, sotto uno degli sporti desolabondi, scorsero essi una divinamente scolpita farfalla, trasparente le alucce, come trepide in palpiti di passione inane a volare». Egli non credeva più nella bellezza, perché «tutto quanto è menzogna».
I crapuloni che lo fissavano negli occhi vedevano la loro gioia finire per sempre, gli innamorati divenivano simili a cipressi sepolcrali, i sapienti smettevano di essere orgogliosi di se stessi: «Andava così in isfacelo sotto l'estraneo guardare del redivivo tutto ciò che serve ad affermare la vita, il suo senso e la sua gioia».
Anche l'imperatore, infine, lo fece condurre a sé. «"Stammi a sentire, o ignoto" disse l'imperatore, scandendo con severità le parole che già in precedenza aveva calcolato: "Il mio impero – è un impero di vivi; il mio popolo – è un popolo di vivi, e non di morti. E tu sei superfluo qui. Ignoro chi tu sia: ignoro cosa tu abbia veduto laggiù; ma se tu dici menzogna – io avverso la tua menzogna; ma se tu parli la verità – io avverso la tua verità. Io sento nel mio petto il palpito della vita; nelle mie mani io sento l'onnipotenza, e i miei fieri pensieri come aquile si librano a volo nello spazio. E là, dietro di me, sotto l'egida della mia potestà, all'ombra delle leggi create da me, vivono e lavorano e si rallegrano gli uomini. Senti tu questa divina armonia di vita? Odi tu questo marziale grido di sfida che avventano gli uomini in faccia all'avvenire, chiamandolo alla pugna? Sei superfluo qui. Tu, miserabile rovina malrosicchiata dalla morte, insinui alla gente il tedio e il disgusto verso la vita; tu, come bruco nei campi, corrodi la ferace spiga della gioia, e vomiti bava di disperazione e di ambascia. La tua verità è simile al pugnale irruginito nelle mani di un assassino notturno – e come assassino io ti abbandonerò al supplizio. Ma voglio prima dare uno sguardo nei tuoi occhi. Soltanto i vigliacchi, forse, li temono; nel bravo invece, essi risveglieranno sete di lotta e di vittoria: ma allora saresti degno non di supplizio, bensì di ricompensa... Guardami, adunque, Lazzaro". Al primo istante, sembrò al divino Augusto che fosse un amico guardare: come una promessa di calmo riposo, quasi tenera amante, misericorde sorella – una madre pareva l'immagine dell'Infinito. Ma sempre più tenace si faceva la dolce stretta, e già una bocca avida di baci toglieva il respiro, e attraverso le delicate carni penetrava il rigor degli artigli, rinserrantisi in ferrea presa – e toccò al cuore il freddo smusso degli artigli, e senza fretta s'immersero in lui. "Mi fa male" il divino Augusto disse, impallidendo. "Ma fissa, Lazzaro, fissa". Ecco, come se girando su cardini lenti pesanti battenti, serrati dai secoli dei secoli, ineluttabilmente, dalla crescente apertura si riversasse in fredda fluidezza il minacciante orror dell'Infinito: ecco, due ombre – l'incommensurabile vuoto e l'incommensurabile tenebra – e spensero il sole, tolsero ai piedi la terra, tolsero il tetto al capo. S'arrestò il tempo, e spaventevolmente il principio d'ogni cosa si ricongiunse alla sua fine. Non appena eretto, e già rovesciato il trono di Augusto, e già il vuoto in luogo del trono e di Augusto. In un amen Roma dissolta, e una nuova città in suo luogo, pure inghiottita essa già dal vuoto. Nel vuoto sparivan rapidissimamente città stati contrade, impassibilmente trangugiati dal cupo insaziabile ventre dell'Infinito. "Fermati" ingiunse l'imperatore. "Tu hai ucciso me, Lazzaro. No, tu non hai ucciso me, Lazzaro" pronunciò con fermezza – "ma io ucciderò te. Vattene!"».
Vinto, ma non ucciso, l'imperatore,  per suo ordine «con ferro incandescente abbacinarono Lazzaro degli occhi».

martedì 19 luglio 2011

piccola conferenza su dio

More about In cielo e sulla terraDio indica la possibilità che ci sia, per noi, sia collettivamente sia singolarmente, individualmente, un rapporto con questo dappertutto e da nessuna parte. Dio, il divino, il celeste indicherebbero, quindi, il fatto che io sono in rapporto, non con qualcosa, ma con il fatto che non mi bastano i rapporti che intrattengo con tutte le cose nel mondo o con tutti gli esseri nel mondo. E che, quindi, c'è qualcos'altro, qualcosa che chiamerei qui "apertura" e che fa in modo che io sia, che noi siamo, in quanto uomini, aperti a più che a essere nel mondo, a più che a prendere cose, maneggiare cose, mangiare cose, spostarci nel mondo, inviare sonde su Marte, guardare le galassie al telescopio e così via.
Importa capire l'impossibilità di richiudere questa apertura, l'impossibilità di essere un uomo così come si è una pietra, un albero, forse anche un animale. Pascal dice: «L'uomo passa infinitamente l'uomo». Perché non è sufficiente chiamare questa dimensione di apertura e di oltrepassamento con nomi astratti? Perché dobbiamo poterci rivolgere, riferire a questa dimensione, per esserle fedeli. Niente a che vedere con ciò che si chiama il credere. Essere fedeli a ciò che qui ho chiamato l'apertura, senza la quale noi non saremmo forse nemmeno uomini, ma solo cose fra le cose, all'interno di un mondo chiuso.

Dove comincia il cielo? Questa domanda potrebbe portarci altrove, alla pittura, ai cieli della pittura. Provate a guardare alcuni paesaggi dipinti da grandi pittori, come il fiammingo Ruysdael o l'inglese Constable. A che scopo? Proprio per mostrare il rapporto fra un gran cielo, spesso, pieno di nubi, e la terra. È come se tutto il quadro fosse fatto solo per mostrare questa apertura dei due, e quindi la linea che li divide.
 



lunedì 18 luglio 2011

il labirinto e l'obelisco

Nel testo Il Labirinto (1935-36) il filosofo George Bataille riconosce il principio di insufficienza che caratterizza tutti gli esseri: «La sufficienza di ciascun essere è contestata senza posa da ciascun altro. Perfino lo sguardo che esprime l'amore e l'ammirazione si attacca a me come un dubbio che sfiora la mia realtà. Uno scoppio di risa o l'espressione della ripugnanza accolgono ogni gesto, ogni frase o ogni mancamento per cui si tradisce la mia profonda insufficienza – così come dei singhiozzi risponderebbero alla mia morte improvvisa, a un mancamento totale e irrimediabile». 
Questa inquietudine genera nausea e fa sì che gli uomini agiscano per essere: «Ciò non deve essere compreso nel senso negativo della conservazione (per non essere rigettati fuori dell'esistenza dalla morte) ma nel senso positivo di una lotta tragica e incessante per una soddisfazione quasi irraggiungibile. Nel primo movimento» – con esplicito riferimento a Hegel – «la forza della quale dispone il padrone mette lo schiavo alla sua mercé, il padrone priva lo schiavo di una parte del suo essere. Molto più tardi, in compenso, l'esistenza del padrone si impoverisce nella misura in cui si allontana dagli elementi materiali della vita. Lo schiavo arricchisce il suo essere via via che sottomette questi elementi per mezzo del lavoro al quale la sua impotenza lo condanna».
La figura del padrone può essere accostata a quella dell'obelisco, che «è senza dubbio l'immagine più pura del capo e del cielo», l'«immagine egiziana dell'imperituro», un «raggio di sole pietrificato» (L'obelisco, 1938). Ma, secondo Bataille, «è stato sempre lecito preferire alla tranquillità il combattimento, alla stabilità la perdita che precipita. È così che la Grecia dei primi tempi ha già rivelato la possibilità di accordo dell'uomo con la violenza. Sembra infatti che la Grecia antica sia stata generata dalla ferita e dal crimine, come la potenza di Crono era generata dalla sanguinosa mutilazione di Urano, suo padre, di Urano, cioè esattamente della sovranità divina del cielo». Così il padrone/obelisco «non ha più base né testa», similmente a quanto avviene nel dipinto di René Magritte L'au-delà (1938).
Alla illusoria tranquillità e stabilità d'essere che pietrifica il padrone come un obelisco, bisogna preferire La pratica della gioia davanti alla morte (1939) e sostenere il proverbio, posto in esergo da Bataille, «Aspro e mite, rozzo e sottile, familiare e stravagante, laido e puro, di folli e saggi un convegno: tutto questo son io e voglio essere, colomba a un tempo e serpente e maiale!» (Friedrich Nietzsche, preludio in rime tedesche a La Gaia scienza).
«Felice solamente colui che avendo provato la vertigine fino a tremare in tutte le sue ossa e a non misurare più la sua caduta ritrova d'improvviso la potenza insperata di fare della sua agonia una gioia capace di gelare e di trasfigurare quelli che la incontrano. Questa sorta di decisione violenta che lo getta fuori del riposo può divenire in lui atto e potenza per i quali egli si consacra al rigore di un movimento che si richiude senza posa come il becco tagliente dell'uccello da preda». Per questi «non c'è al di là» ed egli, con disprezzo felice, «danza con il tempo che l'uccide», non avendo «paura delle ragazze nude e del whisky»; gode di una «santità svergognata, impudica», che magnifica la vita «dalla radice fino alla cima» e «priva di senso tutto ciò che è al di là», realizzando «un'apoteosi di ciò che è perituro, della carne e dell'alcool» e rinnovando «quella specie di esultanza tragica che l'uomo è appena cessa di comportarsi da infermo, di lasciarsi evirare dal timore del domani».
La natura è «come un gioco di forze che si esprime in una agonia moltiplicata e incessante» e perciò io stesso devo distruggermi e consumarmi «senza posa in me stesso in una grande festa di sangue». «Io sono io stesso la guerra» e il mio movimento e la mia eccitazione «non possono essere calmati che dalla guerra».
«Davanti al mondo terrestre in cui l'estate e l'inverno governano l'agonia di tutto ciò che è vivente, davanti all'universo composto di stelle innumerevoli che girano, si perdono e si consumano senza misura, io non scorgo che una successione di splendori crudeli il cui movimento stesso esige che io muoia; questa morte non è che consumazione sfavillante di tutto ciò che era, gioia di esistere di tutto ciò che viene al mondo, perfino la mia propria vita esige che tutto ciò che è, in ogni luogo, si dia e si annienti senza posa. Mi raffiguro coperto di sangue, spezzato ma trasfigurato e d'accordo con il mondo, nello stesso tempo come una preda e come una mascella del tempo che uccide senza posa ed è senza posa uccisa».

domenica 17 luglio 2011

tutti contro tutti

«Durante il tempo nel quale gli uomini vivono senza un potere comune, capace di tenerli tutti in soggezione, essi vivono in quella condizione che è chiamata guerra: e si tratta di una guerra di ognuno contro ogni altro uomo [bellum omnium contra omnes]. Poiché la guerra non consiste soltanto nella battaglia o nel fatto di combattere, ma in tutto quel periodo di tempo durante il quale la volontà di combattere sia sufficientemente nota. Per questo tutto ciò che è conseguenza dello stato di guerra, nel quale ogni uomo è nemico di ogni altro uomo, è anche conseguenza della condizione nella quale gli uomini vivono senza altra sicurezza che quella che la loro stessa forza e la loro stessa abilità sono in grado di procurargli».
(Thomas Hobbes, Leviatano)

E questa guerra la vince il verme più forte e astuto, come nella sequenza introduttiva del videogioco Worms 2 ...
...o il topo con la pistola più grande, come nell'episodio di Grattachecca e Fichetto in cui il gatto e il topo animati preferiti dai figli Simpson si sfidano con armi sempre più grandi fino all'inevitabile sconfitta del gatto che finisce lanciato direttamente sul sole.

sabato 16 luglio 2011

giustizia vs diritto

Nel gennaio 1943, in uno scompartimento di prima classe del treno proveniente da Roma, viaggiavano sei persone, comodamente sprofondate nei cuscini rossi. Nel lungo corridoio brancolavano fra le tenebre dell'oscuramento delle forme umane, mal rassegnate a passare tutta la notte in piedi: di quando in quando, taluna di esse apriva la porta e chiedeva ai viaggiatori che concedessero di alternarsi nel riposo, o almeno si stringessero un poco per creare il cosiddetto quarto posto; scene ormai consuete che riproducevano in aspri battibecchi l'eterno conflitto fra giustizia e diritto. Nello scompartimento di cui parliamo la tutela del diritto era stata assunta da un signore elegante e corpulento che rientrava dalla capitale dopo aver fatto valere la sua influenza presso i ministeri in favore di una società di armamento: con la parola pronta e vivace egli finiva con l'imporsi ai disturbatori, e gli altri compagni di viaggio, se anche in cuor loro sentivano che le pretese degli sfortunati non erano del tutto ingiuste, si mostravano felici di aver trovato il modo, per l'abilità del difensore, di salvare i posti, mantenendo tranquilla la loro coscienza.
(Salvatore Satta, De profundis)

Perché gli italiani avevano accettato, e nella stragrande maggioranza sostenuto, il fascismo? Secondo Salvatore Satta, l'uomo tradizionale, il medio cittadino di stampo ottocentesco, attaccato alla libertà soltanto come garanzia del privilegio, aveva subito ceduto questa libertà al fascismo, impaurito dagli squarci  che si erano aperti nel vecchio ordine; aveva accettato la servitù per non morire, preso dal panico si era buttato a sognare l'impossibile restaurarsi di un nuovo ordine che ancora una volta lo tranquillizzasse.

venerdì 15 luglio 2011

come si costruisce un diplopode

Il reale è razionale, come voleva Hegel, oppure, come sosteneva Schopenhauer, è la manifestazione di una cieca e assurda volontà?
Vediamo se ad aiutarci a scegliere possono essere le lamentele di Ermete, costruttore di tutto ciò che esiste su incarico di Lui.

Guardate per esempio, una delle sue scatole di montaggio. - Mostrò una scatolina piena di pezzi microscopici, e viti grandi come una capocchia di spillo.
- Ora vi leggo le istruzioni su come si costruisce un diplopode (il nome è già un programma!): diplopodi o millepiedi: corpo distinto in capo e tronco, quest'ultimo diviso in torace e addome: torace di quattro segmenti, 1 privo di zampe, 2-4 con un paio di zampe. E già a montare questo uno si rovina la vista. Ma non è finita: addome di doppi segmenti diplosomiti in  numero compreso fra nove e oltre cento, ravvicinati, ciascuno con due paia di zampe. Capito?: "da nove a oltre cento", come se fosse la stessa cosa! Qua basta perdere una zampina, una sola, e l'assetto va a farsi benedire, non mi tiene più la strada, è un disastro. E credete che siano segnate le zampe destre e le sinistre? Macché, uno deve controllarle una per una. Ma udite, udite: orifizio genitale medioventrale nel terzo segmento: e se sbaglio segmento, cosa succede, resta vergine? E poi: respirazione mediante trachee, roba da ridere, infilargliele una a una in bocca!
E poi questa è la Classe, ma ci sono da fare anche gli Ordini: non basta un modello unico di diplopode, c'è il coupé, la berlina, la spider. Glomeridesmida, Oniscomorpha, Polydesmida, Chirdesmida, Juliformia e Colobognatha. Guardi il polydesmida, poveraccio: tronco di 19-22 segmenti, ghiandole repugnatorie presenti, occhi assenti. Cieco e con cinquanta zampe, come farà a non inciampare? Ma a cosa servono tutti questi piedi, guardi qua questo protoragno, già con otto è incasinato, si figuri con mille. Questo è sadismo, o no? Perché creare un millepiedi, per farlo finire nelle barzellette? Ma io non posso discutere, sono solo un operaio, e dai che attacco le zampe e dai che monto ghiandole repugnatorie e dai che non devo confondermi tra segmento anale e capo globulare, se no oltretutto gli danno anche della faccia da culo. Come può una mente superiore pensare in modo così perverso? Qua non c'è pianificazione, non c'è marketing - disse Ermete sconsolato - verrà fuori un gran casino.

(Stefano Benni, Elianto)

diplopodi

giovedì 14 luglio 2011

divario tecnologico-generazionale

- Va a sedersi davanti al computer. Fissa quel cazzo di coso tutto il giorno -. Gardner ponderò qualcosa.
- È un mondo totalmente diverso, - mormorò Huntington. - Hanno sviluppato tutta una serie di capacità nuove che li separano da noi.
- Sanno maneggiare le informazioni visive -. Gardner si strinse nelle spalle. - Sai che roba, cazzo. Per quanto mi riguarda, sono stronzate.
- Non hanno idea di come contestualizzare le cose, - mormorò di nuovo Huntington, allontanandosi, mentre faceva un altro tiro da una nuova canna. Ne avevamo ancora due da passarci ed eravamo già fusi.
- Sono drogati di frammenti.
- Ma tecnologicamente sono più avanti di noi -. Questo lo disse Mitchell, ma dal tono piatto e distaccato non riuscii a capire se stesse contraddicendo Mark.
- La chiamano tecnologia disgregativa.
A un tratto sentii Victor abbaiare nel nostro giardino.
- Mimi non vuole più che Hanson giochi a Doom.
(Bret Easton Ellis, Lunar Park)  

Un dialogo tra padri sui propri figli, sull'ansia e sulla paura che il divario tecnologico tra due generazioni provoca: solo la conoscenza - non la chiusura, la condanna e la censura - può aiutare in questa situazione.

ellis, lunar park«Al di là di quanto possano apparire orribili gli eventi qui descritti, c'è una cosa che dovete ricordare mentre tenete questo libro tra le mani: tutto ciò che leggerete è realmente accaduto, ogni parola è vera».
Così termina il primo capitolo di Lunar Park, di Bret Easton Ellis, in cui l'autore narra una propria pseudo-biografia a partire dalla quale costruirà, nei capitoli successivi, un romanzo di orrori, allucinazioni, ossessioni ma, soprattutto, di difficili rapporti familiari, soprattutto padri-figli. Per questa commistione di horror soprannaturale e di "analisi psicologica" dei personaggi, quello di Ellis mi ha ricordato lo stile di Stephen King, e mi è quindi piaciuto molto.
Altro elemento che ho assai apprezzato, le abbondanti citazioni di cultura pop che sorreggono e aggiungono senso alla narrazione: i videogiochi (
«studiò un gioco per il computer, Quake III»), la musica («io volevo travestirmi da Eminem», «assieme agli onnipresenti poster dei Beastie Boys e dei Limp Bizkit», «si traveste da Posh Spice», «cercava di aprire un cd dei Backstreet Boys»), i dvd («possiamo comprare il dvd di Matrix?», «tra pile di dvd dei Simpson e di South Park») e tutto ciò che riempie le stanze dei ragazzi («pupazzetti giapponesi erano allineati sugli scaffali della libreria che conteneva perlopiù riviste di wrestling e l'intera serie di Harry Potter»); la letteratura e i programmi tv («la obbliga a leggere tascabili di Milan Kundera e a guardare Ok il prezzo è giusto!»); i cartoni («Eccellente -. Feci la mia imitazione di Monty Burns»).

«Le feste erano il mio ambiente di lavoro. Erano il mio mercato, il mio campo di battaglia, dove stringere amicizie, incontrare amanti, concludere affari. Le feste sembravano qualcosa di frivolo e casuale e privo di forma, ma in realtà erano eventi con trame intricate e coreografie di prim'ordine. Nel mondo in cui ero cresciuto, le feste erano la superficie su cui si svolgeva la vita quotidiana».

mercoledì 13 luglio 2011

germania vs grecia

Su suggerimento dei miei studenti, questa appassionante partita di calcio Germania vs Grecia, con telecronaca dei Monty Python.

martedì 12 luglio 2011

risibili buone abitudini

Che significa ridere? Che c'è al fondo del riso? A questo genere di domande tenta di rispondere Henri Bergson nel suo saggio sul senso del comico, Il riso.
 
«Il comico è quell’aspetto della persona per il quale essa rassomiglia ad una cosa, quell’aspetto degli avvenimenti umani che imita, con la sua rigidità di un genere tutto particolare, il meccanismo puro e semplice, l’automatismo, insomma il movimento senza vita. Esso esprime dunque una imperfezione individuale o collettiva che richiede la correzione immediata. Il riso è questa correzione stessa. Il riso è un certo gesto sociale, che sottolinea e reprime una certa distrazione speciale degli uomini e degli avvenimenti».
henri bergson

Per Bergson l’essenza generale della vita – l’élan vital (lo slancio vitale) – consiste in un’energia che si distende, in un movimento dell’intelligenza sempre attenta che si risolve nell’azione dell’avventura, del rischio e dell’impegno. Questo movimento però, per mancanza di attenzione e di inventiva da parte dell’intelligenza di fronte all’esperienza sempre rinnovantesi, può ripetersi, piegandosi in automatismo, una sorta di sonnolenza, torpore o incoscienza dell’intelligenza che si fa simile a una coscienza animale, incapace cioè di aprirsi a un’invenzione continuamente rinnovabile e che tende, invece, a scivolare nel sonnambulismo dell’istinto, in cui tutto si piega e s’incurva in meccanicità, in un sistema di abitudini. Come dirà Jean-Paul Sartre «le buone abitudini non sono mai buone, perché sono abitudini» (Quaderni per una morale), dovendo la morale consistere, invece, in una conversione e rivoluzione permanente, in una “evoluzione creatrice”.
Quindi, ogni rigidità del carattere, dello spirito o anche del corpo costituiscono per una società e una morale aperta come un disturbo, un sintomo e una minaccia, e occorre intervenire con un’azione di repressione: la risposta, il castigo, è il semplice gesto sociale, la reazione collettiva, del riso, una pressione del gruppo sull’individuo che ha la forma di un imperativo morale a rendere e mantenere flessibile uno slancio vitale teso ed elastico che rischia una rigidità meccanica.
Nonostante abbia questa funzione di imperativo morale utile per un perfezionamento generale, il riso non può essere assolutamente giusto. Il riso è, invece, un’umiliante correzione insensibile e indifferente, a volte ingiusto e cattivo, che non sempre colpisce giusto, perché, mirando a un risultato generale, non può concedere ad ogni caso particolare l’onore di esaminarlo separatamente. Una media di giustizia può apparire nel risultato d’insieme e non nel dettaglio dei casi particolari. In ogni caso, vista la sua funzione, il riso non può essere contrassegnato da simpatia e bontà, ma deve intimidire umiliando.
Il riso è amaro come la spuma delle onde.


«Le onde lottano senza tregua alla superficie del mare, mentre gli strati inferiori mantengono una pace profonda. Le onde si urtano tra loro, si contrariano, cercano il loro equilibrio. Una spuma bianca, leggera e gaia ne segue i contorni cangianti. A volte l’onda che fugge abbandona un po’ di questa spuma sulla sabbia della spiaggia. Il fanciullo che gioca là vicino va a raccoglierne un pugno, e si stupisce, l’istante dopo, di non avere nel cavo della mano altro che qualche goccia d’acqua, ma d’un acqua molto più salata, molto più amara ancora di quell’onda che la portò. Il riso nasce come questa spuma. Segnala, all’esterno della vita sociale, le rivolte superficiali. Designa istantaneamente la forma mobile di questi scrolli. È, anch’esso, una spuma a base di sale. Come la spuma sfavilla. È la gaiezza. Il filosofo che ne raccoglie per gustarne vi troverà d’altronde qualche volta, per una piccola quantità di materia, una certa dose di amarezza».

lunedì 11 luglio 2011

così scalò la nothomb

Nei suoi testi Amélie Nothomb dimostra sempre una certa capacità di intrecciare la sua trama narrativa con qualche buona riflessione filosofica. Nel caso di Né di Eva né di Adamo tocca al Nietzsche di Così parlò Zarathustra essere chiamato esplicitamente in causa: è, infatti, con autentico spirito nietzschiano – dionisiaco, libero e fanciullesco, fatto di aspirazione all’altezza e leggerezza, di coraggioso e orgoglioso sguardo dritto al sole, di leonina forza di volontà – che Amélie affronta la scalata del Monte Fuji.

amélie nothomb né di eva né di adamo«Oltre i millecinquecento metri, scompaio. Il mio corpo si trasforma in pura energia, il tempo di chiedersi dove sono finita e le mie gambe mi hanno già trasportato così lontano da farmi diventare invisibile. Altri hanno questa proprietà, ma non conosco nessuno per cui sia una qualità tanto insospettabile, visto che né da vicino né da lontano somiglio a Zarathustra.
Eppure, è proprio quello che divento. Una forza sovrumana si impadronisce di me e ascendo in linea retta verso il sole. La mia testa risuona di inni non olimpici, ma olimpiani. Ercole sembra un mio cuginetto emaciato. Per parlare solo del ramo greco della famiglia.
Se sei Zarathustra, hai piedi divini che mangiano la montagna trasformandola in cielo e, contemporaneamente, al posto delle ginocchia hai catapulte con il resto del corpo come proiettile. Al posto del ventre hai un tamburo di guerra e al posto del cuore la percussione del trionfo, hai la testa abitata da una gioia tanto terrificante che necessita di una forza sovrumana per sopportarla, possiedi tutti i poteri del mondo per l’unico motivo che li hai avocati a te e puoi contenerli nel tuo sangue, e non tocchi più terra causa il dialogo ravvicinato col sole».

«Le mie gambe sono così grandi, mangeranno le cime, voi non avete idea del loro appetito. 
Corro lungo la linea della vetta. Per sei ore di sole e di cielo blu, avrò il monte Fuji solo per me. Queste sei ore non basteranno a contenere la mia estasi. L’esaltazione mi serve da combustibile: non ce n’è di migliore. Zarathustra non ha mai corso così veloce e così in preda all’ebbrezza. Do del tu a Fuji, danzo sulla cresta. È un momento sublime.
Converto in marcia la mia gioia».

 Hokusai, Ragazzo che guarda il Monte Fuji

domenica 10 luglio 2011

esami finiti

Anche per me sono finiti gli esami di Stato di quest'anno. E ripenso a quelli di due anni fa, i miei primi come insegnante, dall'altra parte della cattedra. Come mi avevano ricordato i miei studenti del quinto di quell'anno «un maestro dovrebbe sempre essere all'altezza degli ideali del proprio allievo» (Naruto, vol. 42, cap. 382), come afferma Jiraya poco prima di morire.

Non potevo che rispondere con Nietzsche.
«L'educatore - non già l'insegnante di liceo e i dotti dell'università... C'è bisogno di educatori che siano essi stessi educati, spiriti superiori, aristocratici, comprovati a ogni istante, comprovati dalla parola e dal silenzio, culture divenute mature, dolci - non dei tangheri addottrinati che il liceo e l'università offrono oggi alla gioventù come fossero "balie di grado superiore"» (Crepuscolo degli idoli).

Qualsiasi cosa scegliate di fare, imparate a farla col martello, o, se preferite, con una katana.

venerdì 8 luglio 2011

per il resto perfettamente normale

Ma chi di noi può sperare di frugare col dito inquisitivo tra i bui pensieri che volteggiano nella testa di un folle?
Ecco un tale che è convinto di avere un sedere di vetro e ha paura di sedersi, per non rompersi. Sotto altri aspetti può essere una persona di notevole vigore intellettuale, disposta ad accompagnarci in lunghe escursioni mentali attraverso i labirinti della matematica o della filosofia, purché gli si permetta di rimanere in piedi durante i dibattiti.
Eccone un altro perfettissimamente educato e di vita esemplare, tranne il fatto che, per nessun motivo al mondo, svolterebbe in una direzione che non sia la destra.
Altri hanno la mania dei colori e attribuiscono un valore ingiustificato a degli oggetti rossi o verdi o bianchi.
I numeri, tuttavia, sono i responsabili di una buona percentuale di squilibrati. Ci sono uomini che passano la giornata a vagare per strada, in cerca di automobili il cui numero di targa sia divisibile per sette [o di automobili blu il cui numero di targa sia palindromo, oppure che cercano/si imbattono continuamente in ricorrenze del numero 23, perfino nel voto che devono prendere agli orali dell'esame di Stato].
Fin troppo noto, ahimè, è il caso di quel povero tedesco innamorato del tre, il quale riduceva ogni aspetto della sua vita a una questione di triadi. Una sera tornò a casa, bevette tre tazze di té con tre zollette di zucchero per tazza, si tagliò la giugulare tre volte con un rasoio e con mano morente scarabocchiò sulla fotografia di sua moglie addio, addio, addio.

(Flann O'Brien, Una pinta d'inchiostro irlandese)
 

L'ultima allusione, mi pare evidente, è a Hegel, quel filosofo che - secondo Kierkegaard - se avesse anteposto a tutta la sua opera la frase "tutto questo è uno scherzo" sarebbe stato il più geniale pensatore di sempre, quel filosofo che a parte la sua fissazione per il numero tre per il resto era perfettamente normale.

mercoledì 6 luglio 2011

nutrirsi di gide

Il viaggio d'Urien di André Gide è un itinerario per evadere dalle noie dello studio e risvegliare l'anima alla gioia nel sentire la resistenza della realtà esterna e nel tentare di raggiungere una meta che costantemente arretra e si nasconde, un romanzo fatto di allitterazioni e frasi incoerenti, l'unica lingua che ci vuole di fronte alle cose disordinate del mondo. Ma ancor più bello è il romanzo I nutrimenti terrestri. Sia l'inizio sia la conclusione (e tutto il libro, del resto) sono molto educativi, o, anzi, dis-educativi: sembra di leggere il Nietzsche della critica ai maestri, o uno dei passi di Hermann Hesse tipo questo: «Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un'altra e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n'è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri» (Siddharta). Ecco perché ha fatto tanto bene alla mia formazione.

«Natanaele, adesso, getta il mio libro. Liberatene. Lasciami. Lasciami; ormai mi sei di peso; tu mi trattieni; l'amore che certo ho esagerato verso di te m'occupa troppo. Sono stanco di fingere d'educare qualcuno. Quando ho detto che ti volevo simile a me? - È per il fatto che tu sei diverso da me che ti amo; io non amo in te che quanto che ti differenzia da me. - Educare! Chi dunque educherò, se non me stesso? Natanaele, devo dirtelo? Io mi sono senza posa e da sempre educato. Lo continuo a fare. E non mi reputo mai se non per ciò che potrei fare.
Natanaele, getta il mio libro; non te lo far bastare. Non credere che la tua verità possa essere trovata da qualcun altro; più che d'ogni altra cosa, abbi vergogna di questo. Se fossi io a cercare il tuo cibo, tu non avresti fame per mangiarlo; se ti preparassi il tuo letto, non avresti sonno per dormirci.
Getta il mio libro; di' bene a te stesso che qui non c'è contenuto che uno dei mille possibili modi d'essere di fronte alla vita. Cerca il tuo. Ciò che un altro avrebbe fatto bene quanto te, non lo fare. Ciò che un altro avrebbe detto bene come te, non lo dire, scritto bene come te, non lo scrivere. - Non attaccarti ad altro se non a ciò che senti essere presente in te e in nessun altro luogo che in te stesso, e fai di te, con impazienza oppure con pazienza, il più irrinunciabile degli esseri
».

Gide insegna il fervore, «non la saggezza, ma l'amore» - «insegna a non amare più soltanto la famiglia, e pian piano a lasciarla; rende il cuore malato d'un desiderio d'aspri frutti selvatici e ansioso di strano amore» -, insegna che non basta leggere che la sabbia delle spiagge sia dolce ma che bisogna che i piedi nudi golosi la sentano, che si ha diritto su ogni oggetto dei propri desideri, che ogni fonte rivela una sete, che bisogna fare della propria anima «l'ostello sempre aperto al crocevia», sapersi commuovere per delle susine, voler provare tutte le forme della vita. E, dopo tutto questo, pretende anche di insegnare a lasciarlo. Come scrive Gianni D'Elia nella sua postfazione, quello di Gide è un'apologia del nomadismo vitale e geografico, della libertà affannata e celibe alla ricerca di un'eretica e fluida autoeducazione; una strenua difesa dell'esperienza singolare, del desiderio di godere e nulla possedere, del rifiuto di essere come gli adulti, come i grandi e i disprezzati seduti; un richiamo al presente, al sentire, all'agire, alla gioia di imparare, all'amare le creature e le cose nel rispetto della loro pluralità, al riscoprire la varietà dei doni della vita e della terra.

«Certo, tutto ciò che ho incontrato col sorriso sulle labbra, ho voluto baciarlo; e il rosso sulle guance, le lacrime negli occhi, ho voluto berli; mordere nella polpa di tutti i frutti che verso di me pendevano dai rami. Ad ogni locanda mi salutava una fame; davanti ad ogni fonte mi attendeva una sete - una sete, davanti a ciascuna, particolare -; e avrei voluto altre parole per segnare le mie voglie di andare, dove si apriva una strada; di sostare, dove l'ombra invitava; di nuotare, in riva ad acque profonde; di amore o di sonno sulla sponda d'ogni letto. Ho posato arditamente la mia mano su ogni cosa e ho preteso d'aver diritti su ogni oggetto dei miei desideri».

Leggete questo libro, poi gettatelo ed uscite, perché ve ne avrà dato il desiderio.

martedì 5 luglio 2011

oh mio dio! hanno ammazzato kenny... di nuovo

Albert Camus scrisse Il mito di Sisifo. Per Camus tutti noi, come Sisifo, siamo intenti quotidianamente a spingere una roccia fin sulla cima di una collina, per poi vederla rotolare di nuovo a valle, e sappiamo che il giorno dopo dovremo rifare la stessa cosa. Per Camus bisogna affrontare l’assurdo e accettarlo.

Anche la vita e la morte di Kenny di South Park possono essere viste come un’espressione dell’assurdo. Il compito di Kenny è morire e, per lo più, la gente ride o non lo nota, punizione assurda e priva di senso come il compito di Sisifo. L’atteggiamento indifferente verso la morte di Kenny è l’atteggiamento dell’assurdo perché riflette l’indifferenza dell’universo nei confronti della mortalità umana. Quindi, come Sisifo che spinge il masso tutti i giorni, Kenny deve affrontare il suo destino senza trovare una consolazione nelle risposte. Egli viene ucciso solo per essere resuscitato e poi di nuovo ucciso. Come Sisifo, deve spingere tutti i giorni lo stesso masso, senza una ragione confortante del perché la sua vita non abbia senso. Anche se non moriamo continuamente come Kenny, tutti noi gli assomigliamo poiché dobbiamo affrontare l’assurdità della vita.
Per Camus Sisifo è un eroe perché, cosciente della sua condizione assurda, sceglie di affrontarla e accettarla e così è più forte del suo macigno: comprende che la vita non ha alcun significato intrinseco, tuttavia continua a vivere. Camus definisce tale posizione come una rivolta poiché l’assurdo viene compreso ma non si cede alla rassegnazione. Sisifo dice “sì” al suo destino e non lo rifiuta, non si dispera né pensa di potersi sottrarre a esso, è privo di illusioni e non cerca consolazione in storielle confortanti riguardanti il significato della vita. La lotta di Sisifo gli appartiene sino in fondo e sta a lui deciderne il valore poiché non ci saranno mai risposte riguardanti lo scopo della vita. Sisifo dice “sì” al suo compito assurdo, proprio come Kenny sembra accettare la sua funzione comica: continua, come Sisifo, a dire “sì” al suo compito e dà un significato a se stesso, nonostante l’assurdità della vita.



(da Karin Fry, Oh mio Dio! Hanno ucciso Kenny… di nuovo. Kenny e l’esistenzialismo, in South Park e la filosofia)

lunedì 4 luglio 2011

l'aura fumettistica

Dimmi, figliolo, conosci un critico che si chiamava Walter Benjamin? Scrisse un saggio che si intitolava L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Vedi, Benjamin si preoccupava della produzione di massa... stampa, fotografia... del modo in cui influenza l'aura dell'arte. Guardare una foto della Monna Lisa su una rivista è come vedere il dipinto vero al Louvre? Copiare l'arte ne cambia l'essenza artistica?
"Quel che si atrofizza nell'epoca della riproduzione tecnica è l'aura dell'opera d'arte". E poi, più avanti "Si potrebbe dire generalizzando che la tecnica di riproduzione distacca l'oggetto riprodotto dal dominio della tradizione. Creando riproduzioni, essa sostituisce una pluralità di copie a un'esistenza unica". Argomento affascinante, no?

Così ragiona il mutante degli X-Men Nightcrawler, riprodotto nel disegno, su X-Men: Divided We Stand 1 del giugno 2008, in Wolverine 231 dell'aprile 2009.

Segnalato da Dreca. Visto in cosa ci si può imbattere leggendo fumetti?

domenica 3 luglio 2011

il pericoloso vizio della lettura

Ecco com'è, signorina mia, sempre che lo vogliate sapere. In una capanna, signorina mia, nel nostro secolo industriale non ci vive nessuno.
Innanzi tutto, bellezzina mia, egregia signorina, non vi lasceranno uscire, ma vi inseguiranno e poi... sotto chiave, in convento. E allora, signorina mia? Che volete che faccia, allora? Vorrete che io, signorina mia, seguendo l'esempio di certi stupidi romanzi, venga sulla vicina collina a sciogliermi in lacrime, guardando le fredde mura della vostra prigione e che, infine, muoia seguendo la moda di certi cattivi poeti e romanzieri tedeschi? Bene: in primo luogo permettetemi di dirvi, in via amichevole, che queste cose non si fanno, e in secondo luogo che frusterei di santa ragione voi e i vostri genitori perché vi hanno permesso di leggere certi libercoli francesi; giacché i libercoli francesi non insegnano nulla di buono. C'è un veleno, là dentro, un mortifero veleno, signorina mia!

(Fedor Dostoevskij, Il sosia)

sabato 2 luglio 2011

cultura mutante

«Come diceva Nietzsche, il destino è il termine con cui i vigliacchi descrivono ciò che non hanno la forza di cambiare», grida Charles Xavier mentre sta affrontando Sinistro sul piano astrale - come da splendida immagine qui sotto - in X-Men Legacy 215 dell'ottobre 2008 (in Gli Incredibili X-Men 228 del giugno 2009).

xavier vs sinistro

E nel numero precedente (X-Men Legacy 214 del settembre 2008, in Gli incredibili X-Men 227 del maggio 2009), citando Little Gidding - ultimo dei Quattro quartetti - di T.S. Eliot, afferma: «Non dobbiamo desistere dal viaggiare. E la fine di tutti i nostri viaggi dovrà arrivare là dove avevamo iniziato e conosceremo il posto per la prima volta».
Splendido invito al viaggio.

Filosofia, poesia, ancora una volta i fumetti si dimostrano tutt'altro che letture infantili.

venerdì 1 luglio 2011

corso di filosofia in sei ore e un quarto (2di2)

Non bisogna soccombere alle teorie, ma sapere che i sistemi hanno vita brevissima e non lasciarsi sopraffare da essi, spiega Witold Gombrowicz nella parte su l'esistenzialismo della sesta - e ultima - lezione del suo Corso di filosofia in sei ore e un quarto.
 

«L'esistenza è fatta di nulla e non può essere scoperta se non dall'esistenza del nulla. (Esempio, Stavrogin, ne I Demoni di Dostoevskij, nella scena del duello). Io dico: l'uomo non deve lasciarsi ingannare dalla propria forma. Deve cercare di andar oltre, e affermare che l'uomo sfugge a ogni definizione, a ogni teoria, a tutto. La relazione dell'uomo con il suo pensiero più profondo è caratterizzata dall'immaturità. È come uno studente che si sforzi di dire cose importanti con uno scopo futile, per superare un altro, ad esempio, per mostrarsi più sapiente di lui».

heideggerPer questo Gombrowicz si interessa dell'esistenzialismo - del quale, anzi, può essere considerato un anticipatore letterario - e apprezza soprattutto il pensiero di Heidegger che, chiedendosi perché esiste qualcosa e non il nulla, pone prima il nulla e poi, in secondo luogo, come sua contraddizione, l'essere, conducendo a esperire l'esistenza umana come una costante opposizione al nulla, «una fiamma che incessantemente richiede di esser ravvivata, alimentata».
Per Heidegger l'esistenza umana non è del tutto assicurata, ma esige continue conquiste, preoccupazioni, cura (Sorge), e l'uomo non è mai laddove è ma sempre trascendente, il suo tempo è il futuro e sua caratteristica autentica l'essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode).

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