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mercoledì 30 novembre 2011

questo mio cuore diverso

More about Pao PaoDi Tondelli lessi Camere separate nel marzo 2002, e mi innamorai. Uno dei libri che credo abbia influito di più su quello che sono adesso. Comprai subito il volumone della Bompiani che racchiude i suoi romanzi, il teatro, i racconti. Ma ebbi un po' paura a leggere altro, tanto mi era piaciuto quel primo assaggio, tanto mi aveva segnato quella prima immersione.Solo nel 2005 mi decisi a leggere Altri libertini. Per fortuna non ne restai deluso, fu anzi una conferma.
A
distanza di altri 3 anni, nel 2008, ho letto Pao Pao. La scrittura di Tondelli è sempre molto nervosa, elettrica, calda e, in questo caso più che mai, orale, musicale - poetica e pubblicitaria (da jingle) insieme.
Tutto assolutamente coinvolgente: il protagonista/autore distribuisce attorno - nel testo - i pezzetti del suo dissennato senso come in un giochetto di costruzioni e noi giochiamo con lui, là andiamo a bere, là a pisciare, qui a dormire e lì ahimè a soffrire con lui, seguendolo.
Il senso è dissennato, appunto, l'io è disseminato, non è possibile nessuna storiaccia nauseabonda di definizione del proprio sé, nessuna storiaccia da calcolatore sì-sì-no-sì, come invece i test militari vorrebbero imporre: ognuno ha un cuore diverso e anche lui poveretto ha un battito personale e particolare, una musichetta diversa dagli altri cuori, ma non per questo malata; ognuno sta rigettando i detriti della propria storia, li sta digerendo, assorbendo oppure vomitando, sputando, scoreggiando, eiaculando.
Ognuno si fa la propria vita, la propria storia, la propria costruzione, la propria musica; può provare a vedere se ciò può andar bene con ciò che sta facendo qualcun altro, ma la prospettiva ideale resta quella delle camere separate.

martedì 29 novembre 2011

la follia del giorno

More about La follia del giornoLa follia del giorno, di Maurice Blanchot, è un breve, fulmineo, folle testo. Una tessitura - non del tutto compiuta e compibile - di frammenti che non possono dar vita ad una storia, ad un racconto, ad un senso unitario. Perché - questo potrà stupire qualcuno - neanche uno scrittore, un uomo che parla e che ragiona con eleganza, è sempre capace di raccontare fatti di cui si ricorda.
 

Devo confessarlo, ho letto molti libri. Quando sparirò, impercettibilmente, tutti questi volumi cambieranno; più grandi i margini, più inconsistente il pensiero. Sì, ho parlato a troppa gente, oggi ciò mi sorprende; ciascuna persona è stata un popolo per me. Questo immenso altrui mi ha reso me stesso molto più di quanto avrei voluto. Ora, la mia esistenza è di una solidità sorprendente; anche le malattie mortali mi giudicano coriaceo. Me ne scuso, ma è necessario che seppellisca qualcuno prima di me.

lunedì 28 novembre 2011

la voce delle onde e la sirenetta

More about La voce delle ondeIn una piccola isola nipponica, un giovanissimo pescatore - educato dal mare e dalla voce delle sue onde - non conosce le maniere di amare, non avendone potuto apprendere alcun modello dal cinema o dai romanzi. Le imparerà insieme a una ragazza, da poco tornata su quell'isola.
Ancora un romanzo - questo La voce delle onde di Yukio Mishima - acquatico, liquido, semplice ed insinuante.
Una citazione divertente è questa del fratellino del protagonista che, in gita scolastica, va per la prima volta al cinema e ne racconta l'esperienza in una cartolina alla madre: 
La prima sera a Kyoto ci permisero d'andare dove volevamo, e così Sochan, Katchan e io ci siamo recati subito in un grande cinematografo nelle vicinanze. Era lussuoso come un grande albergo. Ma le sedie ci parvero terribilmente strette e dure, e quando cercammo di sederci era proprio come stare appollaiati su un poggiatoio per galline. C'indolenzivano il sedere, e perciò non riuscivamo a star comodi.
Dopo qualche minuto, dietro di noi un uomo gridò: "Seduti lì davanti! Seduti lì davanti!" Ma noi già stavamo seduti, e pensammo che quello volesse scherzare. Ma allora un signore molto cortese ci mostrò come dovevamo fare. Ci disse che i sedili erano pieghevoli e che se li avessimo spinti in giù si sarebbero trasformati in poltrone. Ci grattammo la testa, consci di aver commesso uno stupido errore. E quando li spingemmo in giù, divennero realmente poltrone, abbastanza soffici anche per l'Imperatore in persona.

Proprio pochi giorni prima di leggere tale scena, mi era tornata in mente un'immagine di un lungometraggio Disney, La Sirenetta: quando Ariel incontra sulla superficie del mare il gabbiano che le mostra i suoi tesori, cose molte delle quali la sirenetta non ha mai visto, come ad esempio una forchetta; ma lei non sa cosa sia, a cosa serva, come si usi, e a dire il vero neanche il gabbiano che l'ha trovata, presa e conservata, e che le spiega che è un arricciaspiccia, cioè un attrezzo per pettinarsi, cosa che subito Ariel inizia a fare con quell'oggetto. In comune queste due scene hanno l'idea che dietro a / prima de / intorno a le tecnologie - del pettine o del sedile pieghevole - c'è sempre una cultura, una mentalità, senza le quali quegli stessi oggetti non funzionano "correttamente" o non funzionano punto. Insomma, la tecnologia non è solo l'oggetto, la macchina, ma tutto un modo di essere e agire.

domenica 27 novembre 2011

l'indagatore dell'incubo

More about Dylan Dog«Se, come noi, avete passato l'adolescenza a intossicarvi regolarmente con le avventure dell'Indagatore dell'Incubo» – Dylan Dog – e se, diversamente dal suo assistente Groucho, non ritenete proprio che la filosofia sia quella «scienza con la quale o senza la quale tutto resta tale e quale», allora il saggio di Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrorre filosofia, è sicuramente una buona e interessante lettura, capace di far emergere la sensibilità poetica e filosofica, di stampo esistenzialista, con cui la serie Bonelli tratta della condizione umana e delle sue situazioni più "estreme" – l'angoscia, l'amore, la morte, la ricerca della verità, l'assurdità della vita – «fino a guardare nietzscheanamente nell'abisso, con la speranza che quest'ultimo, in un momento di distrazione, non si accorga di noi». 
Tanti sono gli ingredienti che fanno di Dylan Dog un fumetto tanto apprezzato da pubblico e critica. L'autore, nel primo capitolo del suo saggio, tenta un'analisi proprio della materia di cui sono fatti gli incubi della serie.
Innanzitutto ciò che Umberto Eco definisce la "sgangherabilità", ossia l'essere composto da una serie di elementi, di punti fissi, che «possono essere isolati e riproposti all'infinito, ricombinati in modo diverso e con l'aggiunta di sempre nuove variabili». Come Nero Wolfe ha le sue orchidee e Colombo il suo impermeabile sgualcito, il suo cane, sua moglie, come serie televisive come Star Trek hanno i loro "pezzi" ricomponibili a piacere, così è anche per la serialità fumettistica dell'Indagatore dell'Incubo.
Poi c'è il citazionismo, ovvero il disseminare di omaggi a film, opere letterarie, musica, i racconti dei vari albi: l'immaginario collettivo, gli elementi "mitologici" sedimentati nella cultura popolare, sono non solo citati ma adoperati, prelevati, trasfigurati, cioè rielaborati e reinterpretati.
Altri elementi sono l'oltrepassamento del "quarto muro" e l'auto-referenzialità. Come nelle opere teatrali di Bertold Brecht, in cui gli attori si rivolgono direttamente al pubblico producendo un effetto straniante e stridente, di alienazione, come nei comics di She-Hulk o Deadpool, coscienti di essere personaggi dei fumetti e quindi capaci di interagire direttamente con i lettori e di sfondare gli spazi bianchi tra le vignette, in Dylan Dog questo elemento metafinzionale è rappresentato soprattutto da Groucho, le cui battutte sono rivolte ai lettori. Nel numero 25 della serie, Morgana, accade invece che Dylan Dog si ritrova a leggere il proprio fumetto, il cui disegnatore ha, tra l'altro, le medesime fattezze di Angelo Stano (illustratore della serie).
Rilevante anche il fatto che la serie affronti tematiche sociali, assumendo posizioni anti-borghesi: dopo «un ciclo di storie più spiccatamente horror, con mostri, depressione esistenzialista, sangue e crudeltà» e un altro «di tipo onirico, che mescola surrealismo e universi paralleli, il tutto allo scopo di fuggire dalla banalità quotidiana», arriva per la serie «un processo di normalizzazione o di autocensura» cui corrisponde «lo slittamento verso il sociale e l'edulcorazione dell'horror». È però da sottolineare «la possibilità che Dylan, grazie a buonismo, animalismo, coscienza sociale e quant'altro, si sia guadagnato un posto nella inquietante "Grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa" teorizzata da Jovanotti». In questo processo, come sostiene anche Claudio Paglieri, il problema di Dylan Dog è quello di «non essere più "contro". La sua rabbia si è annacquata: non fa venire mal di fegato ai bourgeois con le sue accuse, non fa più nascere voglie di censura ai politici né scandalizza i genitori con i nudi e lo splatter. È stato assorbito, è entrato a far parte della maggioranza» (Mi chiamo Dog. Dylan Dog).
L'ultimo e definitivo ingrediente è la capacità di lasciar filtrare nella coscienza dei lettori «la consapevolezza del morire e gli interrogativi ad essa legati», l'offrire «la possibilità di parlare di qualcosa che la contemporaneità ha fatto di tutto per rimuovere, di parlare dell'esistenza umana in tutti i suoi aspetti strutturali, di gettare una nuova luce, insolita e inquietante, sulla vita quotidiana, di vedere da un'angolatura spaesante lo scorrere e il ripetersi dei nostri giorni».
Quest'ultimo elemento è, probabilmente, il più propriamente filosofico. La condizione umana così com'è descritta in Dylan Dog sembra effettivamente rispecchiare l'inappellabile definizione che ne dà il filosofo Albert Caraco, citato nell'introduzione da Manzocco: «nudi fuori e vuoti dentro, con l'abisso sotto i piedi, il caos sopra la testa» (Breviario del caos). E gli strumenti filosofici con cui l'autore conduce la sua analisi sono fondamentalmente quelli presi a prestito dall'esistenzialismo di Karl Jaspers e del cosiddetto primo Heidegger. Dal primo il concetto di "situazione limite", che comprende strutture fondamentali della nostra esistenza quali la nascita, la morte, il dolore, l'amore: «nei confronti del nostro esserci hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, così come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo» (Filosofia). Dal secondo, invece, quello di "tonalità emotiva", condizione emotiva generale e profonda – di disperazione, noia o stupore – che ci spinge a interrogarci sul senso ultimo di tutte le cose: «"perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla?" È la prima di tutte le domande. Capita a ciascuno di noi di essere sfiorato dalla forza nascosta di questa domanda. In certi momenti di profonda disperazione, quando ogni consistenza delle cose sembra venir meno e ogni significato oscurarsi, la domanda risorge» (Introduzione alla metafisica).

sabato 26 novembre 2011

ragazzi terribili

More about I ragazzi terribiliDue volte al giorno però, alle dieci e mezzo del mattino e alle quattro del pomeriggio, il silenzio è turbato da una sommossa. Infatti il piccolo liceo Condorcet apre le sue porte di fronte al 72 bis di rue d'Amsterdam, e gli allievi hanno scelto il cortile come quartier generale. È la loro place de grève. Una specie di piazza medievale, una corte d'amore, di giochi, di miracoli, una specie di borsa dei francobolli e delle biglie, un luogo malfamato dove il tribunale giudica i colpevoli e li giustizia, dove si tramano a lungo quegli scherzi tremendi che poi si consumano in classe e i cui preparativi stupiscono i professori. Perché la gioventù del quinto corso è terribile.
 
(Jean Cocteau, I ragazzi terribili)

venerdì 25 novembre 2011

il padiglione d'oro

More about Il padiglione d'oroMishima mette in scena ne Il padiglione d'oro, narrazione letteraria di un fatto realmente accaduto, i tormenti di un giovane combattuto tra  l'ideale e la vita:  il pensiero dell'ideale, della bellezza perfetta (rappresentato, appunto, dal Padiglione d'oro),  si intrufola sempre nella sua mente e gli impedisce di godere appieno della vita, arriva a fargliela disprezzare.
Non gli resta che rinunciare all'azione e concentrarsi sul pensiero, rifuggiarsi nella fantasia - di essere uno spietato tiranno o un sommo artista - oppure ha ancora una possibilità di riscattarsi dall'opprimente ideale?
Forse sì, quella di distruggerlo, quella di farsi giovane criminale contro l'ordine del mondo e dar fuoco alla somma bellezza del Padiglione d'oro. Per il bene suo e dell'umanità tutta.

"Se incendio il Padiglione", mi dicevo, "compirò un'opera di grande importanza pedagogica. Impareranno che l'indistruttibilità dedotta per via meramente analogica non ha senso. Impareranno che il solo fatto d'aver continuato ad esistere, d'essere stato per cinquecentocinquanta anni dritto presso lo stagno Kyoko, non costituiva per il Padiglione una garanzia di eternità. Impareranno, e questo li turberà, che le premesse ritenute assiomatiche, su cui poggia la nostra esistenza, possono crollare da un giorno all'altro".



giovedì 24 novembre 2011

il giovane criminale

More about Il giovane criminaleQuesto breve testo riproduce quello che sarebbe dovuto essere un intervento di Jean Genet alla radio francese, poi invece respinto e rifiutato.
L'intento dello scrittore francese è quello, se non di fare un'apologia dei ragazzi criminale, almeno quello di tentare di tracciarne un profilo, di azzardarne un'analisi: il giovane criminale vuole che una dura punizione sia la testimonianza della sua violenza, della sua forza, della sua virilità, vuole che la prova sia terribile affinché soddisfi la sua sete di eroismo, che il carcere sia feroce ed eguagli gli sforzi che ha fatto per conquistarlo.
A guidarlo, contro le regole del bene, è la passione per l'avventura, il senso del romanzesco, la volontà di un'esistenza magnifica, audace, rischiosa.
Un poeta, altrettanto nemico della società che questo giovane criminale, può capire bene questa audacia di opporsi all'onnipotenza del mondo.

Il giovane criminale già respinge la benevola comprensione, e la sollecitudine, di una società contro la quale, commettendo il suo primo delitto, si è appena ribellato. Avendo raggiunto a quindici o sedici anni, o prima ancora, quella maggiore età che la gente per bene non avrà nepure a sessanta, ne disprezza la bontà. Esige che la punizione sia inflessibile. Esige anzitutto che i termini che la designano siano il segnale di una crudeltà assoluta. È quasi con vergogna che il giovane ammette di essere stato prosciolto o condannato a una pena lieve. Auspica il rigore. Lo esige.

mercoledì 23 novembre 2011

dono di sé

Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo.
Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla fra le righe, cercare i suoi gusti, i motivi che l'hanno spinta a piazzarci quel libro in mano, i segni di una fraternità.
 
(Daniel Pennac, Come un romanzo)

martedì 22 novembre 2011

con la parola "naso", intendo naso...

Da La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Lawrence Sterne, una appassionata e altamente filosofica discussione sulle possibilità di un naso enorme.

È al di sopra della ragione.  
È al di sotto della ragione. 
È una questione di fede. 
Ma che fede d’Egitto! 
È possibile. 
È impossibile. 
Il potere di Dio è infinito, può fare qualsiasi cosa. 
Non può far nulla che implichi una contraddizione. 
Egli può fare tutto ciò che vuole. 
Sì, come voi potreste ricavare un berretto di velluto da un orecchio di scrofa. 
Può far fare cinque a due più due. 
È falso. 
Onnipotenza è onnipotenza. 
Si può estendere, però, solo alle cose possibili. 
Dio del cielo, Egli può creare un naso grande come il campanile di Strasburgo, se Gli aggrada. 
Ora, essendo il campanile di Strasburgo il più grande e il più alto campanile di tutto il mondo, gli Antinasiani negavano che un naso lungo 175 metri potesse venir portato da un uomo di media statura. I Papisti giuravano che era possibilissimo. I Luterani dicevano che no, non poteva essere.

Ah, e dichiaro che con la parola "naso" intendo naso, niente di più... o meno...

lunedì 21 novembre 2011

strane idee di divertimento

More about La mano sinistra di DioSu suggerimento di Damiani mi sono deciso a comprare e leggere il primo thriller con protagonista Dexter Morgan (sì, quello della serie televisiva), La mano sinistra di Dio di Jeff Lindsay.
E ho fatto bene a lasciarmi convincere, ringrazio molto per questa scoperta: a me il genere giallo o thriller non è che piaccia molto da leggere di solito (da vedere, invece, sì), ma questo romanzo è decisamente al di là del semplice genere cui teoricamente appartiene, è divertente, è glamour, è "tagliente" in tutti i sensi. Che leggerezza e che tensione insieme. Come se essere un serial killer fosse una passione, un hobby come gli altri, e in effetti.
«Era un ulteriore esempio dello sfacelo della società che tanto preoccupava Harry. Sul serio: se non mi fate arrivare il giornale in orario, come potete pretendere che non vada in giro ad ammazzare la gente?». Chi non ha pensato cose del genere, ad esempio, mentre era alla guida della sua macchina? Chi non ha mai avuto certe idee di divertimento?

sabato 19 novembre 2011

il veleno della curiosità

More about La questione del metodoL'altro giorno mi hai domandato com'ero entrato nei frati. Ebbe', è stato per il sapere e "nonostante" quella gente. Ho detestato il metodo e la pedanteria dei grammatici che si accaniscono sulle parole e dimenticano la realtà di cui trattano. Confondono lingua e filosofia, e arrivano anche al punto di correggere gli autori studiati ma sono incapaci di capire ciò che dicono veramente sul fatto d'esser vivi. Hanno fatto di tutto per scoraggiarmi, ma il veleno della curiosità era ormai inoculato. I cattivi maestri possono disgustarti così come possono spingerti a mostrare quanto si sbagliano.

venerdì 18 novembre 2011

raiden crossover

Trovato per caso sul blog di Em1x, questo video mi ha divertito moltissimo: dal videogioco Mortal Kombat esce Raiden che affronta/attraversa molti altri videogiochi e i loro personaggi in una incredibile sequela di citazioni e parodie.
Ne risulta un collage d'azione e di spasso.

giovedì 17 novembre 2011

dopo il banchetto

In Dopo il banchetto, al solito, la scrittura di Yukio Mishima è molto leggera e profonda, delicata e cruda, sapendo toccate e variare tra diversi toni e sfumature.
La cosa più bella del romanzo è la figura della protagonista femminile, una donna molto sicura, determinata ma anche fragile.
Insomma, bello.

Kazu si era data gran pena per scegliere il suo guardaroba in questo viaggio che avrebbe per così dire rappresentato il primo pubblico annuncio della sua relazione con Noguchi. Le sarebbe piaciuto di combinare nel disegno del kimono qualche elemento del nome Yuken Noguchi. L'unico carattere del nome che si prestava a una raffigurazione pittorica era No, ovvero "prato".
Kazu aveva iniziato i preparativi molto per tempo. Dopo molto pensare, aveva deciso che anche se nessuno avesse colto il senso di un disegno connesso col nome di Noguchi, bastava che lo capisse lei

mercoledì 16 novembre 2011

miracolo della rosa

More about Miracolo della rosaLa scrittura di Jean Genet rinuncia volontariamente ed esplicitamente alla precisione a vantaggio del canto, della poesia; ma non si può definire il risultato di ciò inverosimile, perché tutto ciò che è scritto nel testo è esistito esattamente come è narrato, nella mente di chi racconta. Genet crea le sue storie immaginarie, meravigliose, ebbre, che non sono meno reali della squallida nuda vita della prigione, realizza un regno segreto fatto di sortilegi e incantesimi, un giardino incantato in cui si compie il miracolo della rosa, virtualità che aggiungono valore e arricchiscono il cosiddetto reale. Il tutto narrato come in una continua, eterea divagazione, come un sogno.

Sentivo, in ogni mia fibra, che il miracolo era in corso. E il fervore della nostra ammirazione, insieme al carico di santità gravante sulla catena che gli serrava i polsi - i capelli avevano avuto il tempo di ricrescergli e i riccioli gli si ingarbugliavano sulla fronte con la sapiente crudeltà dei tortiglioni che compongono la corona di spine - fecero sì che, davanti ai nostri occhi appena sorpresi, la catena si trasformasse in una ghirlanda di rose bianche.

martedì 15 novembre 2011

corpo

More about CorpoPer Corpo di Tiziano Scarpa non si può propriamente parlare né di romanzo, né di racconti, né di saggistica. Il testo è composto da 500 aforismi, brevi riflessioni, frammenti, su 50 parti del corpo umano (maschile, proprio quello dell'autore): si va dai filosofici peli del petto e della pancia che «vengono al mondo sapendo di avere i giorni contati [e quindi] accettano la vita per quella che è, con i suoi limiti di tempo. Non fanno storie quando è arrivata la loro ora» - mentre «tutti gli altri peli del corpo hanno paura di morire, cercano di restare abbarbicati alla vita il più possibile, bisogna condannarli a morte uno per uno, ghigliottinarli con rasoi, forbici, lamette: ma loro niente, si ostinano a prolungare all'infinito i loro colli senza testa», al creativo ombelico tessitore che «fabbrica formiche e moschini, di lana e di cotone; li cova al calduccio finché sono grandi abbastanza da badare a se stessi, uscire allo scoperto e avventurarsi da soli per il mondo», dalle selvatiche foreste d'ombra delle ascelle ove «i vegetali non possono contare sulla fotosintesi [e] hanno imparato a crescere al buio [e a nutrirsi] di sali minerali e rugiada caldastra» e che «ospitano popolazioni di lemuri dal fiato selvatico», alla lingua immaginifica che «quando si addormenta, sogna suoni inesistenti».
Tra il serio e il divertende, un testo che ho adorato leggere.

lunedì 14 novembre 2011

pompe funebri

Il romanzo di Jean Genet Pompe funebri è ambientato nella Parigi ai tempi della liberazione dai tedeschi, alcuni dei suoi personaggi, perciò, partecipano direttamente a attivamente a questo evento storico, prendono parte alla rivolta armata e alla guerriglia tra le strade e sui tetti. Ma più che mettere questi personaggi in divisa, Genet li veste di paramenti, ne cura l'eleganza sottolineando così l'epocalità della situazione: «tre caricatori di mitragliatrice pieni di proiettili gli si avvolgevano intorno al busto sopra la camicia, giravano intorno alla cintura, risalivano sulle spalle, si incrociavano una volta sul petto e una volta sulla schiena, e gli facevadoisneauno una tunica di rame da cui spuntavano le braccia, nude fin sopra il gomito, quasi fino alla spalla dove la manica della camicia azzurra faceva un rotolo spesso che rendeva il braccio più elegante». 
Sembrerebbe che l'unica giustificazione sia estetica, non etica o politica. La testimonianza di Genet ricorda quella fornita dalle foto di Doisneau della stessa epoca.
A livello di trama, anche in questo caso, Genet si dà alla pura, totale, assoluta, libera divagazione, ricamando e tessendo la sua poesia intorno al tema della morte della persona amata, dell'impossibilità di abbandonarla e dell'inevitabilita di tradirla.


Mi restava di lui qualche piattola che forse gli aveva rifilato una puttana. Ero certo che quegli insetti avevano vissuto sul suo corpo, se non tutti almeno uno, le cui uova invadevano i miei peli con una colonia che si insediava, si moltiplicava ancora e moriva tra le pieghe della pelle dei miei coglioni. Badavo a che rimanessero in quel posto e nei dintorni. Mi piaceva pensare che conservassero una memoria oscura dello stesso punto del corpo di Jean, di cui avevano succhiato il sangue. Eremiti minuscoli e segreti, erano incaricati di tener vivo in quelle foreste il ricordo di un giovane morto. Rappresentavano davvero i resti viventi del mio amico. Per quanto possibile, mi prendevo cura di loro, evitando di lavarmi, persino di grattarmi. A volte mi capitava di strapparne una che afferravo tra l'unghia e la pelle: l'esaminavo un istante da vicino con curiosità e affetto, poi la posavo di nuovo sulla mia peluria riccioluta. Forse i suoi fratelli vivevano ancora tra i peli di Jean?

sabato 12 novembre 2011

povero cartesio

Dopo le aspre critiche di Newton lette nella sua biografia romanzata finita qualche giorno fa, ora mi imbatto in quelle di uno dei personaggi del romanzo L'archivio di Dalkey, di quel Flann O'Brien autore, tra l'altro, di Una pinta d'inchiostro irlandese  di cui ho già parlato qui. L'oggetto di queste comuni accuse è il povero filosofo e scienziato Cartesio.
Se l'ambiguo sir Isaac attacca lo pseudo-filosofo – così è definito Cartesio – per le sue ipotesi gratuite e per di più pagane sull'universo, il teologo e fisico De Selby creato da O'Brien definisce il francese un fifone per aver chiuso il suo manoscritto di fisica in un cassetto quando era venuto a sapere della condanna di Galilei da parte dell'Inquisizione, e un esempio di fede cieca che corrompe l'intelletto, tanto che, invece del celebre motto cogito ergo sum, avrebbe potuto dire ineptias scripsi, ergo sum
Infine, secondo De Selby, anche la morte di Cartesio è stata ridicola: «per assicurarsi una crosta di pane, accettò di recarsi tre volte a settimana dalla regina Cristina di Svezia, alle cinque del mattino, per darle lezioni di filosofia. Le cinque del mattino a quelle latitudini! Naturalmente non resse». E morì di polmonite. 

venerdì 11 novembre 2011

l'apprendista stregone

«La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate», scriveva Marx nel Manifesto del Partito Comunista, utilizzando, per spiegare come l'avvento del socialismo sarebbe stata una necessità storica prodotta dallo stesso sviluppo dialettico del capitalismo – che aveva generato gli stessi uomini e armi che lo avrebbero abbattuto – una metafora tratta dalla ballata di Goethe L'apprendista stregone.
Composta nel 1797 e ispirata a un episodio de L'amante del falso di Luciano di Samosata, la ballata di Goethe racconta di un giovane apprendista che, ricevuto dal maestro l'ordine di pulire le stanze durante la sua assenza, si serve di un incantesimo  per dare vita a una scopa che compia il lavoro al posto suo. La scopa agisce come le è stato ordinato, ma finisce per allagare le stanze, senza che l'apprendista sappia come fermarla se non provando a spezzarla in due con l'accetta, ma ottenendo il solo risultato di raddoppiarla. Solo il ritorno del maestro stregone rimedierà al disastro.
Dall'opera letteraria, il compositore francese Paul Dukas ricavò l'impianto di un poema sinfonico, e alla storia si è ispirato anche un episodio del film d'animazione Disney Fantasia  con protagonista Topolino , a sua volta parodiato da Grattachecca e Fichetto in un episodio de I Simpson.

giovedì 10 novembre 2011

la parrucca di newton

La biografia romanzata che Jean-Pierre Luminet dedica a sir Isaac "scienziato, alchimista o psicopatico?", recita la copertina – non riesce a convincere fino in fondo, quasi incapace di produrre nel lettore quella volontaria sospensione di incredulità che sola può permettere la godibile fruizione di un testo letterario. E ciò è piuttosto paradossale, trattandosi di una biografia, eppure questa è stata la mia sensazione durante tutta la lettura.
La figura di Newton che è tratteggiata dall'autore è quella piuttosto ambigua di un uomo costantemente in bilico tra il puro e disinteressato ricercatore della Verità migliore amica dell'uomo, più di quanto lo possano essere Platone e Aristotele – e l'avido e irriconoscente ricercatore di gloria, onori e benefici; tra l'unto dal Signore intento a compiere una missione divina che lo fa diretto erede dei profeti del Vecchio Testamento giganti sulle cui spalle lui si erge per vedere più lontano di chiunque – e lo scienziato che si sente come un bambino capriccioso, egoista e fantasioso, che «gioca in riva al mare, felice di trovare di tanto in tanto un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del consueto»; tra il geniale scopritore che la Luna "cade" verso la Terra come una mela dall'albero al suolo e il tiranno della Royal Society, «vecchio leone che instaur[a] nel campo della filosofia naturale un regime di terrore» e che organizza «la sparizione del solo ritratto esistente di Hooke [–  suo rivale in campo scientifico, appena morto, e il cui nome aveva dato alla sua cagnetta ] e di tutti i dispositivi scientifici da lui costruiti». Insomma, un «mostro così pieno di sé, vanitoso, subdolo, bugiardo, instabile, ipocrita e tuttavia circondato da quell'aura da cui eman[a] una luce che è propria solo dei santi... o dei demoni».

«Durante i tre anni trascorsi al Trinity College, Newton non aveva avuto altri maestri oltre a se stesso. Si era imposto un programma di studi che il più esigente dei professori non avrebbe mai osato proporre al suo miglior discepolo. Era arrivato a fare l'inventario delle conoscene e delle scoperte accumulte dall'uomo a partire dalla Creazione, di cui aveva confermato la data, 4004 a.C., ricalcolando una serie di eventi. E soprattutto aveva compilato l'elenco di tutto ciò che non era stato scoperto, di quello che lui, Isaac Newton, doveva ancora scoprire. O, meglio, dimostrare. Di qui il suo odio per Descartes. Non potendo provare la meccanica di questo o quel mistero dell'universo, l'erudito francese lo spiegava avanzando l'ipotesi che gli sembrava più plausibile, finendo poi per considerarla un dato di fatto, una legge naturale. Quello pseudo-filosofo parte dal presupposto che tutti i fenomeni naturali possano essere spiegati attraverso il movimento e la materia. Ipotesi, ipotesi gratuite e soprattutto pagane! Perché la meccanica cartesiana non ha bisogno di Dio per funzionare. Da tutto ciò emana un forte odore di libero pensiero, di ateismo! Newton invece sente di essere stato investito da una missione divina, quella di scoprire, attraverso la filosofia della natura, l'armonia universale stabilita dal Signore, di rivelare "come vadia il cielo" per essere in grado di salirci quando verrà la sua ora».

Newton è presentato come una figura piuttosto ambigua anche nella serie a fumetti della Marvel SHIELD. Gli architetti del domani, scritta da Hickman parallelamente alla sua gestione de I Fantastici Quattro e con le vicende di questi intrecciata.

 

un'autorità superiore

Authority è il primo grande supergruppo del ventunesimo socolo. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Dopo aver letto Authority tutti i vecchi supergruppi sembreranno obsoleti e ripetitivi.                
Questi sono i pensieri che mi avevano assalito il cervello subito dopo aver letto il primo numero di Authority nel 1999: Warren Ellis ha iniettato per endovena in questo fumetto il suo io piu puro come mai aveva fatto prima. Brian Hitch e Paul Neary sono andati oltre scaricando, aggiornandolo, un intero DVD di epica per reimmaginare la strada che i supereroi potrebbero intraprendere ritornando por l'ennesima volta dall'inferno. Laura DePuy e il suo Paintshop divino hanno graziato ogni pagina con una bellezza celestiale. Come si fa a non capire dove lo porterà la strada che ha intrapreso? Warren sa che sta giocando con la vostra testa. Non scordatevelo. Warren è capace di serbare diversi tipi di rancore. E qualcuno è di natura politica.
Perché i supereroi tradizionali hanno l'abitudine di andare a braccetto con la Casa Bianca? Non fanno altro che spolverare le statue e riparare le strade, ma non cambiano mai veramente le cose...
Perché non proviamo a formulare qualche ipotesi? Cosa succederebbe se i supereroi decidessero di apportare qualche piccolo cambiamento in nome di una "più alta autorità morale"? Cosa succederebbe se cominciassero a metterci in condizione di affrontare problemi che non sembrano avere soluzione? Cosa succederebbe se tutti i problemi fossero in realtà soluzioni ben camuffate? Cosa succederebbe se noi cominciassimo a pensare come i superuomini, su una scala che difficilmente riusciamo anche solo a immaginare?
Fate la conoscenza dell'unico supergruppo con un programma su una scala che va ben oltre i soliti budget miliardari. Un supergruppo temuto dai potenti e pronto a mollare qualche calcio in culo a chi se lo merita.
Authority ha rinnovato l'ormai asfittico archetipo di supereroe, aggiungendo nuovi, forti significati, aumentando il volume fino a farvi sanguinare il naso e registrando bassi così profondi da rivaleggiare con i territori norvegesi.
Benvenuti al primo volume di questa pietra miliare del fumetto. Nutrite la vostra mente con queste storie, fortunati bastardi...»
(
da Grant Morrison, Introduzione a Absolute Authority, vol. 1)


Un colpo di fulmine. Una mazzata nei denti. Nessuno aveva mai reso i supereroi così potenti, incredibili e divini. Nessuno li aveva mai resi così fragili, reali e umani. E nessuno, soprattutto, aveva risposto alla grande domanda inespressa: che cosa farebbero, se esistessero davvero, persone con poteri e mezzi capaci di cambiare il mondo? Semplice: cambierebbero il mondo! Come potevamo non averci pensato?»
(
da Tito Faraci, Introduzione a The Authority, vol. 3: Terra Inferno)

mercoledì 9 novembre 2011

sul tatami

Lei voleva andare in un ristorante giapponese, ma non solo. Voleva andare in un posto dove, diceva la guida, ci si sedeva sul tatami.
Lui pensò che se avesse vissuto cent'anni prima di incontrarla, avrebbe fatto le stesse tre o quattro cose nello stesso ordine ogni giorno, e poi, non appena conosciuta lei, a cento e uno anni, si sarebbe seduto sul pavimento a mangiare alghe marine.

(Don DeLillo, Underworld)

martedì 8 novembre 2011

partita a scacchi

L'intensa partita che Zweig fa giocare nella sua Novella degli scacchi ai suoi personaggi è un potente simbolo dello scontro tra due tipi di umanità, tra due modelli di uomo: l'umanista che accompagna e adorna il gioco degli scacchi con la passione per la poesia, la musica, l'armonia, con il gusto e l'intelligenza del classico spirito europeo, e l'uomo nuovo novecentesco che - se non è senza qualità - ne ha però ormai solo una, specializzata, sproporzionata, disarmonica ma efficace.
È con una grande e forse un po' ingenua nostalgia che Zweig testimonia del tramonto dello spirito e delle virtù del primo modello umano, della civiltà classica e umanistica, del mondo di ieri.

lunedì 7 novembre 2011

bellezza e tristezza

Bello e triste, come – per usare immagini contenute nello stesso romanzo di Yasunari Kawabata  un collo stupendo in cui infilare un rasoio con gesto di squisita gentilezza, come dita che potrebbero sciogliersi in bocca in un attimo e che fanno venir voglia di reciderle facilmente con i denti. A rendere ancora più affascinante questo testo di cerimonie e vendette, alcune interessantissime riflessioni sull'arte, sulla scrittura, sul linguaggio.
 
Sai con quali caratteri si scrive la parola omiotsuke, zuppa di miso? Le prime tre sillabe, o, mi, o, sono tutti termini onorifici, e soltanto tsuke è sostantivo. Tutti quei termini onorifici vengono aggiunti per dimostrare l'importanza e la difficoltà di preparare una buona zuppa di miso. Non è raro nel Kensai aggiungere il termine onorifico a sostantivi come pesci o verdure, monti o fiumi, case o strade e perfino a fenomeni astronomici e metereologici.


domenica 6 novembre 2011

un weekend postmoderno (4)

More about Un weekend postmodernoDi questa seconda parte di Fauna d'arte del weekend postmoderno di Tondelli ho trovato interessante l'idea di teatro portata avanti da molti dei personaggi incontrati e raccontati dall'autore.
Mi è piaciuto il riferimento a Jean Genet, che adoro, al suo stile narrativo «Genet è uno di quegli autori che danno la loro letteratura come "corpo straziato" e allora, quando li avvicini, non puoi far altro che prendere dei brani, coinvolgerti in una frammentazione continua...» e alla sua idea di teatro "cimiteriale" «i teatri dovrebbero essere costruiti a ridosso, o addirittura dentro, i cimiteri. Il rapporto del teatro con la morte, le apparizioni degli attori come fantasmi della morte eccetera».
Mi è piaciuta l'idea di teatro come opera d'arte totale «nel panorama della "nuova spettacolarità" italiana in cui sempre più spesso il teatro si fonde con il cinema, con le arti visive, la musica rock, dove gli attori sono più acrobati o mimi o danzatori che altisonanti dicitori di testi letterari, dove lo spazio scenico assomiglia sempre più a monitor televisivi in cui si cambia canale e programma ogni cinque secondi, non poteva mancare il tentativo di sposare il teatro con l'architettura, dando luogo a performance altamente spettacolari in cui la multimedialità fila dritta dritta verso l'opera d'arte totale» , che tanto mi ricorda, per parlare dei nostri giorni, gli spettacoli di Antonio Latella (che, casualità?, ha spesso messo in scena Genet).

sabato 5 novembre 2011

vi è là cenere

More about Ciò che resta del fuoco«Vi è là cenere». Leggevo, rileggevo; era così semplice ma capivo benissimo che non c’ero per nulla: senza attendere me, la frase si ritirava verso il suo segreto.
Tanto più che quella parola, là, non era là per essere udita. Mentre mi limitavo ad ascoltarla, con gli occhi chiusi, mi piaceva lasciarmi andare a mormorare la cenere, confondendo quel là, appunto, col femminile singolare dell’articolo determinativo. Dovevo decifrare senza perdere l’equilibrio, in bilico tra l’occhio e l’orecchio: non sono sicuro di essere riuscito a trovare, là, un punto d’arresto. 
La cenere non è più qui.  
Un fumo di tabacco: poche parole che vi escono dalla bocca, destinate a perdersi senza possibilità di riconoscimento.  
L’assenza d’articolo faceva vibrare d’una parvenza di donna il fantasma sepolto nella parola, nel fumo: in fondo al nome comune vibrava il nome proprio. La cenere non è qui ma, là, vi è Cenere.  
È un segnale di cenere, segna il ricordo di qualche cosa o di qualcuno di cui non dice nulla. Essa non ammette se non l’incinerazione in corso, di cui essa resta il monumento.  
La cenere non è, non è ciò che è. Essa resta di ciò che non è, non-essere o impresenza.  
Il miglior paradigma della traccia è proprio la cenere (ciò che resta senza restare).  
Tra bianco e nero, il colore della scrittura assomiglia all’unica “letteralità” della cenere che possa ancora far parte di un linguaggio. In una cenere di parole, nella cenere di un nome, è scomparsa proprio la cenere in persona, la cenere letterale. Il nome di cenere è ancora una cenere della stessa cenere. Ecco perché qui, in una sentenza, la cenere non è più; ma là, vi è là cenere.

(da Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco)

Breve e divertente testo per provare ad entrare nel circolo periglioso del pensiero di Derrida.

ricorda per sempre il 5 novembre

Ricorda per sempre il cinque Novembre,
e la Congiura contro lo Stato.
Ricorda e sta' attento che quel tradimento
mai e poi mai sia dimenticato.


venerdì 4 novembre 2011

kant e l'ornitorinco

More about Kant e l'ornitorincoSpesso, di fronte a un fenomeno sconosciuto, si reagisce per approssimazione: si cerca quel ritaglio di contenuto, già presente nella nostra enciclopedia, che bene o male sembra rendere ragione del fatto nuovo. Un esempio lo troviamo in Marco Polo, che a Giava vede dei rinoceronti. Ma si tratta di animali che lui non ha mai visto. Siccome la sua cultura gli metteva a disposizione la nozione di unicorno, come appunto di quadrupede con un corno sul muso, egli designa quegli animali come unicorni.
L’ornitorinco viene scoperto in Australia a fine Settecento. Nel 1798 un naturalista invia al British Museum la pelle impagliata di un animaletto che i coloni australiani usavano chiamare watermole, duck-mole, o duckbilled platypus. L’animale fa pensare subito al becco di un’anatra innestato sulla testa di un quadrupede e ritenuto opera dei diabolici tassidermisti cinesi, abilissimi nell’innestare, per esempio, una coda di pesce in corpi di scimmia per creare dei mostri sirenoidi. Nel 1800 viene descritto come un animale con triplice natura di pesce, di uccello e di quadrupede e nominato paradoxus perché incategorizzabile. Nel 1802 si vede che l’animale viene a galla per respirare e si pensa a un mammifero, ma non ha ghiandole mammarie con capezzoli ed è oviparo come uccelli e rettili. Nel 1803 si crea la categoria dei monotremi: non sono mammiferi perché non hanno ghiandole mammarie (in realtà vengono scoperte nel 1824, ma sono senza capezzoli, hanno dei pori che secernono latte), non sono uccelli perché non hanno ali, non sono rettili perché sono a sangue caldo e non possono essere neppure pesci. Il dibattito continua e solo nel 1884 si stabilisce che i monotremi sono mammiferi e ovipari.
Il primo tentativo di capire quello che si vede è inquadrare l’esperienza in un sistema categoriale precedente. Ma allo stesso tempo le osservazioni mettono in crisi il quadro categoriale, e allora si cerca di riadattare il quadro. Kant dice che i concetti empirici non possono venire definiti una volta per tutte come i concetti matematici, ma ammettono un primo nucleo intorno al quale poi si raggrumeranno (o si ordineranno armoniosamente) le successive definizioni.
Se lo schema dei concetti empirici è un costrutto che cerca di rendere pensabili gli oggetti e se dei concetti empirici  non si può dare sintesi mai compiuta, perché nell’esperienza si possono scoprire sempre nuove note del concetto, allora gli schemi stessi non potranno che essere revisibili, fallibili, destinati a evolversi nel tempo. Se i concetti puri dell’intelletto potevano costituire una sorta di repertorio intemporale, i concetti empirici non possono che diventare storici, o culturali.
Kant non ha detto questo, ma pare difficile non dirlo se si porta alle sue ultime conseguenze la dottrina dello schematismo. Naturalmente a questo punto anche il trascendentalismo subirà la sua rivoluzione copernicana. La garanzia che le nostre ipotesi siano giuste non sarà più cercata nell’a priori dell’intelletto puro bensì nel consenso, storico, progressivo, temporale, della Comunità. Il trascendentale si storicizza, diventa un accumulo di interpretazioni accettate dopo un processo di discussione, selezione, ripudio.

(da Umberto Eco, Kant e l'ornitorinco

Oppure si può dare il caso che, come ho visto su un'immagine postata da un mio ormai ex-studente su facebook, questa paradossale creatura che è l'ornitorinco derivi da una fusione à la Dragonball tra un'anatra e un castoro. O l'esito di un matrimonio inter-specie.




actarus

More about ActarusCon Actarus Claudio Morici ci racconta la vera storia di un pilota di robot, tra problemi di alcolismo, incomprensioni sul lavoro,  costruzione mediatica del personaggio, voglia di prendersi una vacanza perché non si può costantemente pensare a salvare il mondo, è logorante. Qualche momento ironico e divertente il libro ce l'ha, è vero, ma le sue qualità non vanno molto oltre a questo.

- C'è una cosa in effetti che volevo chiederle...
Goldrake avanti! Si è buttato. Ormai è difficile tornare indietro. Oh, magari non succede niente. Oh, stavolta ci provo, in fondo è lui che me l'ha chiesto, no? Ma che me ne frega a me.
- Dottore, è da un po' che penso di prendermi una vacanza... Una piccola vacanza di dieci quindici giorni. Credo di meritarmela dopo anni di lavoro ininterrotto. Anche Gundam si è preso una settimana, lo scorso anno.
Il Dottore non si scompone, non perde la patina di grande dignità, impegno, attenzione ai problemi dell'universo. Se ci fosse un campionato mondiale della dignità lui di certo andrebbe in finale. S'è incazzato? Si volta verso la montagna, con le mani dietro la schiena, riflette. Rimane in silenzio per qualche secondo. C'è una musica particolare, quella dei momenti finali, una musica che ti fa capire che si chiude un capitolo, che la guerra non è finita ma che oggi la Terra non verrà spazzata via grazie alla passione di un pugno di eroi. Il Dottore, rivolto ad Actarus:
- Per la richiesta delle ferie non devi rivolgerti a me. C'è l'ufficio amministrativo apposta, compila il modulo e calcoleremo le ferie maturate.


giovedì 3 novembre 2011

übermensch


Nietzsche come übermensch (super/oltre uomo).

bande filosofiche

Io, Julius Puech, chi sono al momento? Ebbene, io sono la testa pensante e il nervo della guerra dalla Fas [Frazione Armata Spinozista]. Io regno, grottesco e pericoloso, su dieci individui di sesso maschile, altrettanto incazzati e suicidi. Animati dalla somma intelligenza di coloro i quali avanzano verso il burrone grigio della morte eventuale, noi filosofiamo con la gloria effimera, in accordo con il mondo che ci circonda.
Questo il protagonista di Spinoza incula Hegel, romanzo nero di guerriglia e di passione che Jean-Bernard Pouy ambienta in una Francia post-atomica alla Mad Max o alla Ken il guerriero, raccontando di scontri tra bande che di filosofico, apparte il nome, hanno secondo me ben poco.

mercoledì 2 novembre 2011

corpo a corpo con la morte

Nel suo saggio Filosofando con Harry Potter, Laura Anna Macor definisce la saga della Rowling come «un vero e proprio esercizio spirituale, una sorta di ginnastica interiore, che niente ha da invidiare al Fedone platonico o ai virtuosismi teoretici di Essere e tempo» di Heidegger, collocabile negli scaffali delle librerie in compagnia non solo di libri fantasy o per ragazzi. La vera co-protagonista di tutta la vicenda sarebbe, infatti, la Morte e lo scontro – uno scontro interiore, più che esteriore e carnale – con essa dei diversi personaggi: la brama umana di distruggere i limiti della mortalità e i molti tentativi messi in atto dai maghi per vincere la morte (l'Elisir di Lunga Vita estratto dalla Pietra Filosofale, il sangue di unicorno, gli Inferi, gli Horcrux, i Doni della Morte) si contrappongono all'accettazione della dimensione umana nel pieno delle sue implicazioni, vale a dire anche nel pieno delle sue limitazioni («Come scrive l'eminente filosofo mago Bertrand de Pensées-Profondes nel suo famoso trattato Uno studio delle possibilità di invertire gli effetti contingenti e metafisici della morte naturale, con particolare riguardo alla reintegrazione di essenza e materia: "Lasciate perdere. Non succederà mai.», da Le fiabe di Beda il Bardo). La vera differenza tra Voldemort e Harry Potter consiste nell'atteggiamento nei confronti della morte che li contraddistingue: da un lato la Morte viene temuta e, proprio per questo, sfidata, dall'altro viene temuta ma rispettata, riconosciuta come irreversibile. Il rispetto di questa linea di confine, di questo limite, definisce l'uomo in quanto tale.
La priorità di dignità e giustizia rispetto al semplice mantenimento dell'esistenza a tutti i costi, il subordinare la sopravvivenza ad altri e più alti valori – cioè, accettare la morte – sono caratteristiche di Harry Potter sin dal suo primo anno a Hogwarts: «Se uno finisce dannato per sempre, meglio morire, no?», sostiene Harry quando il centauro Fiorenzo lo rende edotto degli effetti del bere il sangue di unicorno (Harry Potter e la Pietra Filosofale). E la semplicità e l'immediatezza di questo parere si rivelano autentiche dopo essere state nuovamente acquisite attraverso le molte sofferenze e innumerevoli traversie della sua travagliata adolescenza: «Vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire» (Harry Potter e i doni della Morte). «Peggio che morire sembra essere tutto ciò che priva l'essere umano del suo proprium, vale a dire della sua dignità e della sua affettività», spiega l'autrice, richiamando la spiegazione del professor Lupin sugli effetti del malvagio potere dei Dissennatori, che non portano via la vita ma l'anima, non rubano l'esistenza ma l'umanità: «È molto peggio. Puoi esistere anche senza l'anima, sai, purché il cuore e il cervello funzionino ancora. Ma non avrai più nessuna idea di te stesso, nessun ricordo... nulla. Non è possibile guarire. Esisti e basta. Come un guscio vuoto. E la tua anima se n'è andata per sempre... è perduta» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).
È proprio l'accettazione della morte, riconosciuta come condizione definitoria del proprio essere, ad orientare l'agire umano facendolo rispondere a un ordine di ragioni superiore al mero impulso alla sopravvivenza, alla richiesta biologica di salvaguardia personale – il rispetto della morale e dell'umanità, l'impegno per la concretizzazione della giustizia –, e a rendere possibile quella magia antica e potente che è l'amore: «la magia dell'amore consiste nella protezione fornita alle persone amate, nel momento in cui si sia pronti a morire per loro», in un effetto scudo prodotto dal sacrificio della vita compiuto per amore, ed inoltre è «l'unica via autentica che permette all'uomo di rimanere tale, cioè di accettare la propria mortalità, senza per questo dover però rinunciare a ogni speranza in una qualche forma di sopravvivenza», spiega la Macor.
Tutto questo Voldemort non lo ha mai compreso: «"Niente è peggio della morte, Silente!" ringhiò Voldemort. "Ti sbagli" replicò Silente. "In verità, l'incapacità di capire che esistono cose assai peggiori della morte è sempre stata la tua più grande debolezza» (Harry Potter e l'ordine della fenice). Ed è per questo che alla fine Harry Potter risulta essere il vero padrone della Morte, il legittimo proprietario e degno possessore dei suoi doni, il che non significa invulnerabile o immortale, poiché è diverso il modo di intendere la vittoria sulla morte di Harry rispetto a quello propagandato da Voldemort: una via radicalmente altra rispetto alla negazione dell'umanità e all'annullamento dei confini naturali – rappresentati anche dall'abbrutimento fisico, dal processo di imbestialimento e deformazione cui Voldemort va incontro divenendo «una spaventosa mistura di teschio e rettile, a significare che il progetto di liberazione dai vincoli dell'umano è sicuramente riuscito, anche se non nella direzione programmata» – è quella rappresentata dal sopravvivere alla morte nel ricordo e nell'affetto dei propri cari. Uno dei simboli di questa accettazione della morte è proprio la fenice: «ben lungi», afferma  l'autrice, «dal rappresentare, come di primo acchito si potrebbe credere, la vittoria sulla morte, apparentemente annullata nelle periodiche rinascite, la fenice è invece l'emblema più compiuto dell'interiorizzazione del limite: essa rinasce perché muore, non accetta di morire perché sa che rinascerà, ma rinasce perché ha accettato di morire. Harry ripropone lo stesso percorso della fenice: non va incontro alla morte perché immagina che potrà tornare indietro, ma, al contrario, può tornare indietro perché ha deciso di andare incontro alla morte». In questo Harry Potter è superiore persino ad Albus Silente, che confessa: «Ma chi di noi avrebbe mostrato la saggezza del terzo fratello, se avessimo avuto la possibilità di scegliere fra i tre Doni della Morte? Maghi e Babbani sono altrettanto assetati di potere: chi avrebbe resistito alla Bacchetta del Destino? Quale essere umano, che avesse perduto una persona cara, non avrebbe scelto la Pietra della Resurrezione? Persino io, Albus Silente, troverei più facile rifiutare il Mantello dell'Invisibilità. Il che dimostra che, per quanto intelligente, sono comunque un idiota come tutti» (Le fiabe di Beda il Bardo). Anche Harry è esposto al rischio di cedere alla seduzione della necromanzia a causa del suo dolorosissimo vissuto, è anch'egli vulnerabile all'idea e al desiderio di imporsi sulla morte e renderla reversibile, ma egli, conclude la Macor, «vince questa sua tentazione e arriva ad accettare la morte, sua e dei propri cari, comprendendo che ci sono cose ben peggiori per i vivi che morire».
Nello scontro finale – non solo una lotta ma la dimostrazione della superiorità di una scelta, quella di andare incontro alla morte rinunciando alla possibilità di sopravvivere – le figure che accompagnano Harry Potter sono parte di lui, invisibili a chiunque altro, ed è quello il modo in cui i nostri cari sopravvivono alla morte. Come aveva già spiegato Silente ad Harry dopo lo scontro con i Dissennatori da cui è salvato dal Patronus di un cervo come quello del padre: «Credi che le persone scomparse che abbiamo amato ci lascino mai del tutto? Non credi che le ricordiamo più chiaramente che mai nei momenti di grande difficoltà? Tuo padre è vivo in te, Harry, e si mostra soprattutto quando hai bisogno di lui. Altrimenti come avresti fatto a evocare proprio quel Patronus? Ramoso è tornato a correre la notte scorsa. Quindi ieri notte hai visto tuo padre, Harry... l'hai incontrato dentro di te» (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban).

Nel complesso un saggio più analitico che filosofico, ambito in cui sostanzialmente nulla aggiunge dopo il bel testo di Simone Regazzoni Harry Potter e la filosofia.

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