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giovedì 29 marzo 2012

simbolismo, senso e nichilismo in pulp fiction

Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino è un film sul nichilismo americano. All’inizio del film la conversazione tra Vincent e Jules verte su Big Mac, gruppi pop, serie televisive, ecc.: questi riferimenti frivoli non sono un semplice diversivo, ma è il modo in cui i due personaggi danno un senso alla loro vita, una vita fatta di icone e di simboli culturali pop, di transitorietà. In un altro tempo e/o in un altro luogo le persone avrebbero interagito attraverso soggetti che consideravano più grandi di loro, che avrebbero trasmesso il senso e il significato della propria vita e che avrebbero determinato il valore delle cose. Questo è un aspetto assente nell’America del ventesimo secolo. Ecco perché nel film abbondano le icone pop: esse costituiscono i punti di riferimento attraverso i quali comprendiamo noi stessi e gli altri. L’iconografia pop arriva a occupare ogni spazio della scena quando Vincent e Mia entrano nel Jack Rabbit Slim’s. Oltre che l’iconografia pop, nel film il discorso del linguaggio interessa i nomi che si danno alle cose (Big Mac, Quarto di libbra con formaggio e Whopper; cameriera chiamata garçon; motocicletta e chopper). Il linguaggio non si spinge più in là di se stesso. Definire qualcosa “buono” o “cattivo” lo rende tale, dal momento che non esiste autorità o criterio superiore attraverso cui giudicare le azioni.
L’assenza di ogni tipo di fondamento che aiuti a formulare giudizi di valore genera nei personaggi una sorta di vuoto che viene riempito con il potere. Essi si collocano all’interno di una gerarchia di potere nella quale a comandare è Marsellus Wallace e le cose della vita arrivano ad assumere un valore solo se lo stabilisce Marsellus Wallace. Un perfetto esempio di come funzioni questo meccanismo è la misteriosa valigetta che Jules e Vincent sono incaricati di riportare al capo. Non fa differenza quello che contiene la valigetta. Se Jules e Vincent possedessero una struttura oggettiva di valori e di significati, sarebbero in grado di determinare se il contenuto della valigetta alla fin fine abbia o meno un valore, e sarebbero capaci di stabilire quali azioni siano o non siano giustificate al fine di recuperarla.
Nel film, tale carenza di una qualsiasi forma di autorità superiore è raffigurata dalla mancanza totale di rappresentanti della polizia. Zed indossa la divisa di un corpo di sicurezza privato, che gli conferisce le sembianze dell’autorità. Egli è però soltanto una guardia privata, non un vero poliziotto, e rappresenta un’allusione all’arbitrarietà dell’autorità. Marsellus Wallace funge da legislatore di valori, da somma autorità. Nel frangente in cui Marsellus è tenuto prigioniero, la sua autorità è usurpata da Zed, che ora ha il coltello dalla parte del manico e spinge l’usurpazione all’estremo con lo stupro di Marsellus.
Quei simboli culturali pop sono posti in forte contrasto con un passaggio particolare del Vecchio Testamento, quello di Ezechiele 25, 17: «Il cammino dell’uomo timorato…». Jules cita il brano appena prima di uccidere qualcuno. Il fatto è che il passo allude a un sistema di valori e di significati in funzione dei quali si dovrebbe vivere la vita e fare le proprie scelte. Jules offre tre possibili interpretazioni del passaggio. La prima è in linea con il tipo di vita condotto sino ad allora. Qualsiasi cosa faccia (dietro comando di Wallace) è giustificata, pertanto lui è l’uomo timorato protetto dalla sua pistola e tutto ciò che si frappone è per definizione cattivo o maligno. La seconda interpretazione è interessante e sembra in linea con l’atteggiamento pseudo-religioso di Jules in seguito a quella che lui traduce come un’esperienza mistico-divina. In questa visione, il mondo è malvagio ed egoista e, a quanto sembra, ha indotto Jules a compiere tutte le nefandezze di cui si è reso responsabile sino a quel punto. Ora è diventato il pastore, e proteggerà Ringo (nell’ambiente della mala un pesce piccolo) da quel male. Ma l’uomo comprende che quella non è la verità. La verità è che lui è il male contro cui per anni si è fatto predicatore. Jules sta cercando di trasformarsi nel pastore, per guidare Ringo attraverso la valle delle tenebre. Certo sono tenebre che Jules si è creato da sé, nel senso che la lotta per diventare il pastore è la lotta con se stessi per non ritornare al male.
La scelta dell’arma con cui Butch andrà a salvare Marsellus è l’elemento rappresentativo della sua trasformazione: egli soppesa prima un martello, poi una mazza da baseball, una sega elettrica e infine la spada da samurai. È indubbio che la spada si distingue. Anzitutto è un’arma propria, mentre le altre non lo sono. Ma spicca anche perché gli altri tre oggetti sono simboli della vecchia America. Essi esprimono il nichilismo che Butch si sta lasciando alle spalle, mentre la spada da samurai rappresenta una cultura particolare sorretta da una struttura morale rigidissima, il tipo di fondamento oggettivo assente dalla vita dei personaggi. La spada è per Butch ciò che il passo biblico è per Jules: uno spiraglio che si intravede al di là della cultura pop, al di là dell’abisso spalancato del nichilismo, verso un modo di vivere e di pensare dove esistono criteri morali oggettivi, dove esistono significati e valori, e dove il linguaggio trascende se stesso. La spada è significativa anche perché, contrariamente all’orologio d’oro (un cimelio mandato a un bambino da un padre a lungo assente del quale ricorda ben poco, un simbolo vuoto, senza referente perché ciò a cui dovrebbe rinviare è assente), ricongiunge Butch alla discendenza maschile della famiglia fatta di guerrieri, soldati delle varie guerre. La scelda della spada trasforma Butch in un individuo legato a una storia e a una tradizione, le cui azioni sono guidate da un rigido codice di condotta permeato dai valori supremi dell’onore e del coraggio.

(da Mark T. Conard, Simbolismo, senso e nichilismo in Pulp Fiction di Quentin Tarantino, in Platone suona sempre due volte)

lunedì 26 marzo 2012

platone suona sempre due volte

More about Platone suona sempre due volteNella prefazione di questo saggio sulla filosofia del noir Platone suona sempre due volte – si riconoscono le origini di questo genere nella sensibilità, acuta soprattutto nella letteratura americana di metà Ottocento, che il “viaggio” dell'uomo nella natura poteva tranquillamente finire in un disastro, come nel caso del Moby Dick di Melville, così come lo spirito imprenditoriale yankee poteva benissimo degenerare nel rozzo materialismo de L’uomo di fiducia – dello stesso autore. Anche Poe aveva collocato l’esito del viaggio trascendentale in una prospettiva piuttosto problematica e i suoi racconti mettono in questione il potere della ragione umana. L'universo noir è altrettanto caotico quanto quello di Poe, e il cinema noir lo rende con le sue caratteristiche opposizioni costanti di luci e ombre, con le sue abituali angolazioni oblique della macchina da presa, infine con i suoi personaggi ritratti in posizioni sgraziate e non convenzionali.
La proposta generale degli autori è che il noir possa essere visto come una sensibilità o un modo di guardare al mondo conseguente alla morte di Dio, e che sia un tipo di risposta o di riconoscimento artistico americano a questo mutamento sismico della comprensione del mondo. Ciò che secondo Nietzsche rende la verità problematica e la definizione impossibile – l’abbandono delle essenze, la conseguente metafisica del flusso, il rifiuto di qualsiasi cosa permanente e immutabile nell’universo, cioè la morte di Dio – è lo stesso fenomeno che fa del noir ciò che è, una visione del mondo a dir poco labirintica.
Nelle mani di autori come Conan Doyle il classico e mitologico Minotauro è diventato il criminale, intrappolato in un “labirinto del crimine”, il gomitolo è diventato la matassa degli indizi e, ovviamente, il nobile Teseo è diventato il formidabile investigatore Sherlock Holmes. Watson, infatti, descrive costantemente il mondo del crimine come un “labirinto” (o a volte un “dedalo”) e osserva in continuazione quanto sia necessario trovare “il bandolo della matassa”.
Secondo Eco esistono tre tipi di labirinto. Il primo è il classico labirinto greco, da cui è possibile entrare e uscire senza troppe difficoltà e in cui l’unico vero problema è costituito dal Minotauro. Il classico labirinto greco toccava tutte le giuste corde della mentalità medievale: il mondo è estremamente ingannevole, arduo da conoscere e proprio pericoloso, ma non c’è da preoccuparsi, perché con il “filo della fede” si può eludere il diavolo e fuggire dal labirinto di questa vita terrena approdando sicuri alle porte del Paradiso. 
Il labirinto manierista è multi planare, distorto, con rampe di scale, botole e specchi, niente è quello che sembra e non c’è nemmeno bisogno di un Minotauro, giacché il labirinto della modernità è il suo stesso Minotauro. La sfida vera e propria è guadagnare l’uscita tra frammentazione, scetticismo e pluralismo, e questo avverrà possedendo la versione moderna del filo di Arianna che è la ragione. 
Il labirinto rizomatico non possiede né inizio né fine ma cresce e si espande, non c’è un perimetro e non c’è via d’uscita ma ogni filo di Arianna non fa altro che condurre più addentro.
Mentre il labirinto del detective classico rappresenta un labirinto manieristico, quello del detective noir è un labirinto rizomatico. Il mondo del detective classico è ordinato e significativo, le aberrazioni sociali sono temporanee e le capacità superiori di ragionamento deduttivo del detective ne fanno rapidamente giustizia. Un mondo del genere riflette il senso vittoriano dell’ordine e la convinzione nella supremazia della scienza. Gli scrittori hard-boiled, invece, lo sostituirono con un mondo corrotto e caotico, dove il sommo valore del detective è la mera capacità di sopravvivere con un briciolo di dignità. Questo cupo labirinto della notte è ovunque e in nessun luogo, e il detective hard-boiled ne percorre le migliaia di corridoi nascosti. All’interno di questo sconfinato labirinto dell’essere non esiste luogo sicuro in cui rifugiarsi, né una porta nascosta della salvezza, né, in ultima analisi, alcuna possibilità di fuga. Il detective hard-boiled lo sa bene, e accetta consciamente il suo destino di isolamento nello sconfinato labirinto rizomatico del male.

venerdì 23 marzo 2012

sfida ai confini del mare

Master & Commander. Sfida ai confini del mare (di Peter Weir, USA, 2003). Quello tra la nave da combattimento inglese Surprise e il vascello corsaro francese Acheron è un antagonismo che non è semplicemente riducibile a quello di uno sfidante. Piuttosto, come si può fra l’altro evincere dal sottotitolo originale (The far side of the worldIl lato lontano del mondo), il vascello concentra in sé tutta la carica di possibile alterità, lo straniero e il nemico, l’estraneo e lo stravagante, insomma in ogni senso l’altro. Ma l’aspetto più significativo adombrato nel film è che questo altro, così funebre e minaccioso, così misterioso e prodigioso – davvero tremendum et fascinans –, questo altro sbucato dal nulla, come se provenisse direttamente dall’inferno di cui dice il suo nome, questo altro sempre capace di sorprendere e di inquietare, del quale non si può con certezza stabilire se si è alla caccia, o se invece si è da esso cacciati, questo altro ci abita, siamo noi stessi. Lo si comprende dal continuo “gioco delle parti” fra le due navi, dal loro avvicendarsi nel ruolo di inseguitrice o di inseguita, che le conduce ad incontrarsi continuamente nonostante la distesa sconfinata dell’Oceano, l’una indistinguibile dall’altra nella prosecuzione di un duello verosimilmente destinato a riproporsi in maniera incessante. Il conflitto con l’altro non riguarda qualcosa di “esterno”, si tratta invece di un’interminabile battaglia con se stessi, dalla quale non è possibile sottrarsi, di un combattimento che non stabilisce una volta per tutte vincitori e vinti, ma costantemente si riapre, semplicemente spostandosi in avanti. L’Acheronte non è solo il luogo oscuro che ci attende alla fine del percorso. È il nostro quotidiano compagno di viaggio.

(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema



giovedì 22 marzo 2012

primo amore

Primo amore (di Matteo Garrone, Italia 2003). Secondo Plotino per migliorare gradualmente se stessi occorre trattare la propria anima come se fosse una statua, operando ciò come un artista il quale nulla aggiunge o produce, ma al contrario elimina, riduce, cancella. L’obiettivo a cui tende questo lavoro sistematico di alleggerimento consiste nel “vivere puro con se stesso”. Al termine di quest’opera si potrà si potrà diventare luce pura, splendore pieno, compiuta bellezza. All’origine del passo delle Enneadi è un luogo del Fedro di Platone in cui il paragone con l’artista viene introdotto riferendosi all’atteggiamento dell’amante: ciascuno sceglie il proprio amore e “se lo costruisce e se lo adorna come se fosse una statua”. L’amore consiste nel trattare l’altro come qualcosa che va costruito, come oggetto da plasmare, in un’attitudine plastica orientata alla trasformazione. L’amore non è incontro o mera fusione statica fra due individui per quello che ciascuno di loro è, ma coincide piuttosto con un mutamento radicale, che coinvolge tutto il loro essere, il cui scopo è il conseguimento di una perfezione luminosa. A differenza dell’itinerario salvifico descritto soprattutto nelle Enneadi, nessuna salvezza attende i protagonisti di Primo amore. Vittorio coltiva un ideale di assolutezza che non libera e non redime, che non conduce allo “splendore supremo”, ma porta piuttosto al cospetto del volto orribile della Gorgone.

(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema

mercoledì 21 marzo 2012

spider

Spider (di David Cronenberg, Canada 2002). Il piccolo ragno trae esclusivamente da se stesso la “realtà” che pensa essere invece fuori di sé, costruisce mondi possibili traendoli  dalla propria mente e restando alla fine imprigionato nella tela che egli stesso ha intessuto, conformemente al destino imposto ad Aracne, capostipite di quella “specie” di individui che autoalimentano i propri affanni. Ciò che appare in forma estremizzata nel piccolo Spider, è presente anche, con modalità meno vistose, in ciascuno di noi: la tendenza a vivere in un proprio mondo, diverso e separato rispetto a quello dei nostri simili, l’alimentare con la nostra immaginazione – i nostri sogni, ma anche i nostri incubi – la nostra vita, l’inclinazione a vivere una realtà che si rifornisce prevalentemente della nostra elaborazione, piuttosto che di autentico rapporto con gli altri. Dovremmo riuscire ad aprirci all’”altro”, riconoscendone l’irriducibile alterità, e insieme accettandone il ruolo insostituibile per la costituzione della nostra identità.

(da Umberto Curi, Un filosofo al cinema

lunedì 19 marzo 2012

vita sexualis

More about Vita sexualisŌgai Mori racconta in Vita sexualis lo sviluppo del desiderio sessuale e le esperienze erotiche – dai sei ai ventun anni – di un filosofo, la cui precoce o innata lucidità di marca schopenhaueriana sembra attutire ogni umana pulsione sessuale, non farlo abboccare all'ingannevole esca del piacere di cui la natura si serve per indurre gli uomini alla perpetuazione della specie, atto cui altrimenti nessun essere desidererebbe consapevolmente contribuire.
Interessante, proprio all'inizio del testo, la presentazione del protagonista, Kanai Shizuka, di mestiere filosofo appunto, accomunato a Schopenhauer anche nel suo stile di tenere le proprie lezioni: «spesse volte il professore riesce a far scoccare nell'uditorio illuminazioni folgoranti ricorrendo ad argomenti lontanissimi o addirittura del tutto estranei al tema che sta esponendo. Dicono che Schopenhauer annotasse su un quaderno notizie di cronaca e altri fatti banali servendosene poi per illustrare il suo pensiero. Ebbene, Kanai nella sua storia della filosofia fa confluire di tutto. Talvolta, nel bel mezzo di una serissima lezione, sorprende gli studenti citando come spiegazione un qualche romanzetto che in quel momento va di moda fra i giovani. Romanzi, il professore ne legge un'infinità». Insomma, un pop filosofo ante litteram.

domenica 18 marzo 2012

da qualche parte, oltre l'arcobaleno

Il volume Fiabe Marvel raccoglie una serie ri ri-narrazioni e rimediazioni di favole classiche con protagonisti gli eroi della Marvel. Le prime quattro storie hanno per protagonisti i Vendicatori: Capitan America è Peter Pan e guida i bambini perduti, i ragazzi che non crescono, Thor, Testa di Latta, Falco e Pantera; Visione è un figlio artificiale alla Pinocchio creato dallo scienziato Henry Pym; la giovane Vendicatrice Stature è Alice nel Paese delle Meraviglie; infine, She-Hulk finisce nel Regno di Oz dove scoprirà di avere sempre già avuto il potere dentro di sé , potere che deriva dal credere in se stessi, potere che consente di ottenere qualsiasi cosa finché ci si mette tutto il proprio impegno, e insieme a lei lo spaventapasseri Thor lottando scoprirà di avere la forza che deriva dalla fiducia in se stessi, l'uomo di latta Iron-Man che sacrificando se stessi per salvare i propri amici si dimostra di avere più cuore di quanto un uomo possa sperare, il leone Capitan America che è possibile, anche quando la speranza sembra ormai perduta, superare le proprie paure e raccogliere il coraggio che si ha dentro di sé.
La quinta storia trasporta il mondo di Spider-Man in quello di Cappuccetto Rosso. La sesta ed ultima, invece, narra il rapporto tra Xavier e Magneto degli X-Men ispirandosi alla strana amicizia di una tartaruga e di un'aquila raccontata in una fiaba africana.
Personalmente, solo la prima e l'ultima fiaba dei Vendicatori mi sembrano minimamente degne di nota narrativamente e graficamente parlando.



mercoledì 14 marzo 2012

contro il femminismo moralista

Con il breve, lucido, incisivo saggio Sulla libertà delle donne, Valeria Ottonelli riesce a decostruire e mettere in discussione i principi di un certo femminismo moralista subito definito come «una posizione culturale e politica che, nel nome della libertà delle donne e della loro "dignità", assume un atteggiamento sostanzialmente censorio» e «nel fare questo si appella a un orizzonte simbolico e valoriale sostanzialmente conservatore e impone modelli di vita e di società che altro non sono se non rivisitazioni in chiave laica di vecchi miti familisti, religiosi e tradizionalisti» – che pretenderebbe di detenere il diritto unico all'idea e all'immagine della "vera" donna, della femminilità "autentica". Come ricorda l'autrice, come ogni invito al "se stessi" vero e autentico, anche questo femminismo finisce per cadere, invece, nell'invito «ad aderire a un qualche modello di come dovremmo essere e che è diverso da come appariamo agli altri e da come gli altri ci interpretano». L'esortazione ha sempre un che di violento nel suo tendere all'uniformità e all'adeguamento rispetto a un modello proposto come quello giusto, nel suo misurare, paragonare, giudicare e condannare che sembra negare una certa libertà piuttosto che promuoverla e garantire l'emancipazione da stereotipi.
Nei discorsi pubblici di questo femminismo moralista la Ottonelli riconosce una certa «ipocrisia e connivenza con gli standard di un'etica essenzialmente conservatrice e tradizionalista», una certa incapacità nel riconoscere quale fondamento della giustizia la libertà di scelta e di autodeterminazione, giustificate falsamente dai richiami all'uguaglianza e alla parificazione intese più che altro come condivisione di un peso e di un fardello socialmente imposti anziché come reale emancipazione da essi.

lunedì 12 marzo 2012

cartesio e la cannabis

Perché Cartesio ha trascorso tanti anni della sua esistenza lontano dalla Francia? E perché in Olanda? «Eppure è ovvio. Cartesio ha fatto quello che fanno tutti i francesi ad Amsterdam: è venuto a fumare l'erba!». Partendo da questa risposta del proprietario di un caffè di Amsterdam, Frédéric Pagès indaga nel suo breve e fulminante Cartesio e la cannabis il fondamento di questa ipotesi di un Cartesio narco-turista, andato in Olanda per «fumare in pace e a un prezzo onesto un'erba di qualità», come dimostrerebbero anche molte delle esperienze dal filosofo stesso raccontate, talmente "allucinanti" da non poter trarre origine da altro che dal consumo d'erba.
Che Cartesio abbia trascorso ventun'anni il periodo più importante della sua vita adulta, quindi –, intervallati da brevi soggiorni in Francia, nei Paesi Bassi è un dato di fatto. Che nei suoi scritti e nelle sue lettere egli abbia elogiato incessantemente le allora Province Unite quale luogo in cui trovare facilmente tutte le comodità e le curiosità che si possono desiderare, tutto ciò che le Indie producono e che è raro in Europa, è innegabile. Ma perché, allora, si chiede Pagès, «di questo Cartesio olandese che i Paesi Bassi considerano come un fiore all'occhiello della loro Età dell'oro, i miei professori di filosofia non mi avevano mai parlato»?
Se la prima volta (1618) Cartesio si reca in Olanda per iscriversi, in quanto figlio minore, figlio cadetto, in una delle migliori accademie militari dell'epoca, arruolandosi poi nel reggimento francese di Maurice de Nassau ma nel momento di tregua della Guerra dei Trent'Anni, quando vi torna (1628) è per dedicarsi alla scienza, al nuovo sapere e alle nuove tecniche, vantando l'Olanda le università migliori e più vivaci, un clima culturale euforico ed eccitante: l'Olanda rappresenta l'avanguardia liberale dell'Europa che, ad esempio, offre asilo a Galilei dopo la condanna da parte di Roma del matematico pisano – e Cartesio ne frequenta l'élite culturale, come testimoniano il suo "provarne" tutte le università e la ricchezza dei suoi contatti. I Paesi Bassi rappresentavano il rifugio europeo per eccellenza per i perseguitati, i sospettati, gli intellettuali paladini della libertà di espressione, gli eruditi attratti dalla possibilità di una vita dai più ampi orizzonti, mentre nel resto del continente imperavano tirannia e bigotteria, come quelle imposte in Francia dal potere assoluto del cardinale Richelieu che, fondando l'Académie française, voleva inquadrare meglio scrittori e pensatori.
Passando alla storia del tabacco, Pagès ricorda che l'erba di Nicot arriva in Olanda a partire dalla fine del XVI secolo e che l'abitudine di fiutarne e fumarne le foglie si diffuse con sorprendente rapidità tra tutti gli strati della popolazione nell'epoca della tregua della guerra, cioè nel periodo del primo soggiorno di Cartesio, il quale dunque si imbatte «in una popolazione dedita con passione e piacere al consumo di un'erba che ovunque in Europa terrorizzava le pubbliche autorità» (l'uso del tabacco è punito in Inghilterra, in Russia i fumatori sono decapitati, in Francia un decreto proibisce loro di riunirsi in luoghi pubblici). Ricorda anche che i principali amici di Cartesio erano dei gran libertini, noti per la loro vita dissoluta, per l'amore per gli agi  e per il piacere quotidiano. Difficile, quindi, immaginare il filosofo e i suoi amici «fare un viaggio per l'Olanda tenendosi alla larga dal tabacco». Del resto, in una falsa biografia di Cartesio scritta già nel 1692, si racconta che Cartesio facesse un uso eccessivo di tabacco e che fosse quella la causa del "prender fuoco" del suo cervello con l'effetto di produrre visioni, sogni, allucinazioni.
Dopo queste scoperte biografiche dello stesso Pagès, il proprietario del caffè ha buon gioco nel dedurre che, se lo storico dell'industria olandese del tabacco Roessingh non esclude la possibilità che una parte della mercanzia fosse "condita" con della cannabis sativa, essendo abitudine almeno dalla fine del Medioevo quella degli osti di arricchire i loro prodotti con sostanze allucinogene, e se gli Olandesi conoscevano, da migliori navigatori del mondo quali erano nel XVI e XVII secolo, tutti gli usi e tutte le varietà della canapa, da tessere per le loro navi e da fumare, Cartesio deve aver fumato qualcosa di più che del semplice tabacco.
O si ammette che Cartesio sia andato in Olanda per assaggiare la cannabis, o si deve riconoscere che la Francia della Controriforma, reazionaria, tirannica, bigotta, inquisitoria, presentava un'aria irrespirabile per qualsiasi intellettuale, e allora meglio, molto meglio, l'aria «di libertà leggermente fumosa» delle Province Unite.

venerdì 9 marzo 2012

fogliame e rocce

Non so spiegarmi: ma certamente tu pure hai un'idea; sai come chiunque altro, che c'è o ci dovrebbe essere un'esistenza al di là di noi stessi? A che scopo sarei io stata creata se fossi interamente contenuta in me stessa? Le mie grandi pene in questo mondo sono state le pene di Heathcliff, e io le ho conosciute e le ho sentite tutte una a una dal principio; la sola ragione di vivere per me è "lui". Se tutto il resto perisse, e "lui" rimanesse, "io" continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e "lui" fosse annientato, l'universo si cambierebbe per me in un'immensa cosa estranea; non mi parrebbe più di essere una parte di esso. Il mio amore per Linton è simile al fogliame del bosco; il tempo lo muterà, ne sono sicura, come l'inverno muta gli alberi; il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io "sono" Heathcliff! Lui è sempre, sempre nella mia mente; non come un piacere, come neppur io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così non parlare più della nostra separazione: è impossibile.

(Emily Brontë, Cime tempestose)

mercoledì 7 marzo 2012

da dove comincia l'abbigliamento?

Ci si può chiedere da dove cominci l’abbigliamento. Dove comincia e dove finisce un ornamento? Ogni tipo d’abbigliamento sarebbe un ornamento? Dallo slip a tutto il resto? Come considerare i veli completamente trasparenti?
(Jacques Derrida, La verità in pittura).

L’interrogativo centrale si focalizza sul rapporto tra panneggio-veste-ornamento e corpo nudo. Come individuare i tratti e i limiti dell’ornamento? Quale ne sarebbe l’inizio, quale la fine? Dove fermarsi? Perché non considerare ornamento la pelle stessa che fascia il corpo, così che l’essenza rappresentativa della pura bellezza non sarebbero altro che le viscere rovesciate ed esposte all’esterno in piena quanto oscena visibilità? Se il bello deve o dovrebbe prescindere da ogni ornamento, non ne sarebbe forse perfetta rappresentazione lo squartamento del corpo? Ed anche arrivati a questo punto estremo, non saremmo affatto ancora sicuri che la progressione (auto)distruttiva possa aver fine. Ci si confronta qui con una certa impossibilità a finire, a porre termine e a porre limiti.
(Massimo Carboni, L’ornamentale. Tra arte e decorazione)

lunedì 5 marzo 2012

the walking dead

Non terrorizzare i lettori, ma presentare loro un argomento estremamente serio e tragico è l'intento esplicito di Robert Kirkman, autore della serie a fumetti The Walking Dead. La sua storia di zombie non vuole essere una "festa splatter di violenza sanguinolenta", ma un modo di affrontare la messa in discussione di chi siamo e del nostro ruolo nella società, così come ogni buona storia e film di zombie è, oltre a un sacco di "figate", una critica e riflessione sociale. Nella presentazione al primo volume, Kirkman afferma che intende «indagare i modi in cui le persone reagiscono di fronte alle situazioni estreme e come ne escono cambiate», vedere il protagonista "mutare e maturare" e osservare «come riuscirà a sopravvivere, piuttosto che stare a vedere quanti zombie» spuntano da dietro l'angolo per spaventare il lettore. Insomma, scrivere una sorta di "racconto epico" che sia una "cronaca di anni e anni" della vita del protagonista, una storia di zombie "che non finisce mai"... «o che almeno continua per un bel po' di tempo...»


domenica 4 marzo 2012

prima che il diavolo sappia che siamo morti

Un ultimo – anche per data di pubblicazione – esempio di una visione delle “meraviglie” (marvels) come fonte di insicurezza, paura, terrore; un esempio che, in più, ha per protagonista proprio la serie a fumetti che attualmente prediligo, cioè Uncanny X-Force
Uno degli eventi che ha caratterizzato praticamente tutte le testate fumettistiche della Marvel nel 2011 è stato Fear Itself – la paura stessa, titolo reso in italiano anche con Il potere della paura – e a tale evento è stata legata anche una miniserie in tre numeri dal titolo Before the Devil Knows We’re Dead (tra le altre cose, e non di poco conto, disegnata dall'ottimo Simone Bianchi). Il titolo è la citazione di un proverbio irlandese (may you be in heaven half an hour before the devil knows you’re dead, cioè “possa tu finire in paradiso mezz’ora prima che il diavolo venga a sapere che sei morto”) che allude a quelle persone apparentemente destinate al regno dei cieli ma che, in realtà, non sono proprio degli stinchi di santi. Le questioni etiche e morali, lo ho già segnalato, sono uno dei caratteri fondamentali di questa serie a fumetti. Il nemico di turno si chiama Jonathan Standish, affiliato dei purificatori, nobile organizzazione che si prefigge di proteggere l’umanità e salvare la sua anima dalla demoniaca progenie dei mutanti, colpevole di aver portato l’apocalisse sulla terra. La paura dei mutanti terrorizza a tal punto Standish e la scheggia impazzita di purificatori che lo segue, da portarli a progettare il piano di incitare la gente al suicidio quale unica via di salvezza e poi, una volta che la maggioranza dell’umanità ha rifiutato l’invito – qualche migliaio di persone su miliardi di esseri umani è, per il messaggio di salvezza di Standish, un fallimento –, agire direttamente per «portarla in cielo prima che il diavolo sappia che è morta», cioè compiere una strage che coinvolga quante più persone possibili, per il loro stesso bene. La prospettiva dei purificatori sembra essere quella per cui i mutanti avrebbero condotto il demonio sulla terra e, quindi, l’umanità alla fine del mondo: il pianeta sarebbe stato migliore, un luogo più pacifico, senza di loro e i loro superpoteri. Ecco il pensiero di Standish, lucidamente e follemente espresso poco prima di tentare di realizzare il suo piano di salvezza.
«Tutto ciò che volevo era una vita normale. Sono diventato un chirurgo perché volevo aiutare le persone normali. Ho studiato anni per raggiungere l’abilità necessaria a salvarle. Ma avete idea di quante di esse sono arrivate nel mio ospedale in seguito ad azioni di superumani? Sapete con quanto sangue umano mi sono macchiato, per effetto di queste “meraviglie”? Più eroi emergevano, maggiore era la sofferenza umana. Più potenti gli eroi diventavano e più potenti erano i mostri che minacciavano il nostro mondo. Noi siamo persone comuni, e vogliamo solo vivere in pace. I superumani ce l’hanno portata via. E alla fine, ci hanno portato via il nostro mondo. Io voglio solo salvare la gente». 
Le “meraviglie” che emergono nel mondo non sono altro che mostri che minacciano l’uomo normale, comune, di cui mettono a rischio la vita pacifica con la loro semplice presenza e a cui non fanno che infliggere sofferenze con le loro azioni.
«Voi non siete eroi! Voi siete orrori! La brava gente di questo mondo sarebbe molto più al sicuro se quelli della vostra razza non fossero mai spuntati fuori. Battaglie senza fine. Per ognuno di voi “eroi” che arriva, spunta anche un criminale più potente che lo affronta. Originate solo dolore e sofferenza».
Questo il violento atto d’accusa finale che Standish muove ai mutanti, orrori capaci solo di portare dolore e sofferenza alla brava gente di questo mondo. Per quanto le parole di Standish siano le folli recriminazioni dettate a una mente instabile dalla paura, gli stessi membri di X-Force sono consapevoli che questo non è un punto di vista isolato, la prospettiva di una sparuta minoranza di individui: i mutanti sanno che molti uomini, quando li guardano, non vedono in loro eroi ma soltanto assassini e che la paura negli occhi degli uomini marchia i mutanti come mostri.


venerdì 2 marzo 2012

cartmanlandia e il problema del male

Nell’episodio di South Park Cartmanlandia Kyle vede la felicità di Cartman come un male terribile: Cartman non si merita tanta felicità e non è giusto che lui l’abbia ottenuta. Kyle osserva che quanto è accaduto non è solo incredibile, ma considerata la sua visione del mondo – che include credere che Dio esista – è anche impossibile. Se Dio esiste, dato che egli è infinitamente buono e onnipotente, non permetterebbe a Cartman di essere completamente felice; ma ora che Cartman ha il suo lunapark, Cartman è completamente felice; quindi Dio non esiste.
Il problema logico del male implica che l’esistenza del male sia logicamente incompatibile con l’esistenza di Dio. Un modo per risolvere il problema è attraverso la cosiddetta difesa del libero arbitrio, in base alla quale si sostiene che i mali individuali non hanno risposta, ma sono un rischio che Dio deve correre se vuole permettere che accada il bene: il bene può essere ottenuto solo con il nostro libero arbitrio, come sostiene Agostino solo le azioni libere sono azioni buone. Quindi, il rischio del male è necessario se al mondo ci deve essere il bene.
Ma i mali naturali, quelli non causati dal libero arbitrio dell’uomo? Come soluzione al problema del male naturale, la soluzione del libero arbitrio non regge.
Una soluzione che cerca di risolvere il problema del male sia morale che naturale è la teodicea sulla formazione dell’anima. Tale giustificazione suggerisce che il male, sia morale che naturale, è permesso nel mondo in modo da permetterci, come individui e come specie, di sviluppare il nostro carattere. Azioni derivanti da caratteri a cui è stata concessa la perfezione non sono così buone come quelle derivanti da caratteri che hanno sviluppato la perfezione. Per assicurarsi che nel mondo ci siano le azioni migliori, Dio permette l’esistenza del male in modo che noi possiamo reagire, evolvendo ed eventualmente perfezionandoci. Così, anche se alcuni mali specifici potrebbero restare senza risposta, il mondo intero sarebbe migliore se noi sviluppassimo il nostro carattere e lo possiamo fare solo reagendo al male.
Questo ragionamento riflette quello di Gesù nell’episodio Un Capodanno indimenticabile: «La vita è fatta di problemi e vivere è risolvere i problemi, crescere e imparare dagli ostacoli. Se Dio sistemasse tutto al posto nostro, la nostra esistenza non avrebbe più alcun senso».
Ma il problema legato alla quantità del male nel mondo sembra ancora irrisolto e la discussione rimane aperta.

(da David Kyle Johnson, Cartmanlandia e il problema del male, in South Park e la filosofia)

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