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lunedì 30 aprile 2012

la katana e la farfalla

Se c'è un personaggio tra gli X-Men che ben rappresenta il concetto di mutazione è senza dubbio Psylocke. Non solo, nel corso della sua vita, è stata tantissime "cose" (pilota, modella, spia, giustiziere mascherato), ma è proprio nel cuore del suo essere che risiede un'inquietante e perturbante instabilità, come se il suo naturale stato di riposo consistesse proprio nel mutare. Mutando riposa, per usare un'oscura espressione di Eraclito. I suoi poteri telepatici e telecinetici, infatti, si manifestano in due forme espressive apparentemente alternative e contraddittorie: una farfalla e una katana. Come due espressioni di due opposti estremi: il potere e il controllo.
Ma la contraddizione è, appunto, soltanto apparente e superficiale. La farfalla, infatti, è sì simbolo di finezza, tocco delicato, controllo, ma – come del resto spiega anche Peter Milligan nella serie 5 Ronin, in cui alcuni personaggi della Marvel, tra cui Psylocke appunto, vengono trasportati nel Giappone medievale e impegnati ognuno a percorrere il proprio sentiero verso la vendetta – «in Giappone le farfalle sono venerate perché combinano vigore e grazia. Il vigore del volo e la grazia e la leggerezza per posarsi su questi delicati fiori», abilità di cui avrà bisogno anche la giovane O-Chiyo/Psylocke se dovrà farsi strada in questo mondo violento.
D'altra parte, come invece in un'occasione spiega la stessa Psylocke (su testo di Mike Carey), «per maneggiare una katana, la forza, il potere grezzo, non è neanche la metà di ciò di cui si ha bisogno. La spada deve divenire un'estensione del braccio, della volontà. Bisogna lasciarla volare, e dopo richiamarla a casa. Come se fosse un essere vivente sensibile ad ogni pensiero». Lasciare volare la spada, come un essere vivente, come una farfalla, leggera e vigorosa.
La farfalla e la katana, allora, non sono semplicemente due differenti espressioni del potere tra cui scegliere: «la spada può essere la farfalla. La delicatezza può vivere dentro il potere. Dirigendolo. Focalizzandolo. È come certe ambigue immagini di un vecchio libro: due volti o un vaso; una vecchia donna o una giovane ragazza. Non sono due cose. È la stessa cosa vista sotto prospettive diverse».
Come nelle classiche figure ambigue ed enigmatiche della psicologia, come in alcune litografie di Escher, come nell'eraclitea strada all'in su e all'in giù che è in realtà la stessa, il divenire, l'instabilità o la non fissità dell'identità, la fluidità dell'essere al di là delle superficiali e sbrigative apparenze, sembra essere la regola di ogni realtà.


sabato 28 aprile 2012

se dio è bene assoluto...

Joyce era in salotto e leggeva, circondata da libri. Le rivolsi un rapido sguardo. Era il ritratto di una calma colossale, con il suo gran pancione appoggiato sul grembo come fosse un essere distinto. Dietro gli occhiali da lettura i suoi occhi grigi erano chiari e bellissimi. Era seduta con una dozzina di libri accanto, alcuni sul tavolinetto basso, altri appoggiati uno sull'altro vicino a lei sul divano. Stava leggendo Chesterton, Belloc, Thomas Merton e François Mauriac. C'erano libri di Karl Adam, Fulton Sheen ed Evelyn Waugh. Diedi un'occhiata ad alcuni dei titoli: The Spirit of Catholicism, The Faith of Our Fathers, The Idea of a University. Alcuni di quei libri erano miei, tirati fuori da un polveroso scatolone in garage, ma la maggior parte erano nuovi nuovi, appena arrivati dalla libreria. Era incredibile vederla con libri di quel genere, perché lei era una fredda materialista, apparteneva a un gruppo di semantica, andiamo, era praticamente atea, aveva un approccio duro e scientifico ai fatti.
«Che fai?».
«Sto pensando di fare un cambiamento». Si levò i suoi occhiali da lettura. «Se Dio è bene assoluto, perché permette che nascano bambini storpi?».
Provai un immediato terrore. «C'è qualcosa che non va con il bambino?».
«Assolutamente no. Sto facendo una domanda».
«Non ne so la risposta».
Sorrise soddisfatta. «Io invece sì».
«Che bellezza».
«Vuoi sentirla?».
Non riuscivo a prenderla seriamente. Era solo un altro capriccio dovuto alla gravidanza. Mi piaceva avere una moglie atea. La sua posizione rendeva le cose più facili per me. Semplificava la pianificazione familiare. Non avevamo scrupoli sui contraccettivi. Il nostro era stato un matrimonio civile. Non eravamo incatenati da nessun dogma religioso. C'era sempre il divorzio, non appena avessimo voluto. Se fosse diventata cattolica, si sarebbero create ogni sorta di complicazioni. Era difficile essere buoni cattolici, molto difficile. No: era un capriccio, una moda passeggera. Non poteva essere altro.
«Ti passerà», dissi.
«Se Dio è il bene assoluto e il sapere assoluto, allora perché crea quelle anime che sa che saranno dannate eternamente?».
«Non lo so».
«Io invece sì», sorrise lei.
«Ma che bellezza».           

(John Fante, Full of Life)

lunedì 23 aprile 2012

diplomazia postmoderna


Da Holy Terror di Frank Miller.

sabato 21 aprile 2012

l'urlo


giovedì 19 aprile 2012

catastrofe morale

È facile compiere un atto nobile per la patria, fino a sacrificare la propria vita per essa; molto più difficile è commettere un crimine per la patria... Nella Banalità del male Hannah Arendt ci ha fornito una descrizione precisa di questo dilemma. La maggior parte dei carnefici nazisti non erano semplicemente malvagi, erano ben coscienti che le loro azioni avrebbero causato umiliazione, sofferenza e morte alle loro vittime. La via d'uscita da questa situazione era che, «invece di pensare: che cose orribili faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che cose orribili devo vedere nell'adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle!».
Come sapeva Arendt, lungi dal riscattarli, il fatto stesso che essi siano in grado di conservare una tale normalità mentre commettono questi atti è la prova definitiva della loro catastrofe morale.
La serie tv 24 fa vedere la confusione etica della posizione di Bauer, privo di alcuna pace interiore: Jack confessa di avere dei dubbi, non sa se ha fatto la cosa giusta, e tutto quello che può fare è rassegnarsi a vivere con l'ossessione delle sue azioni passate fino alla fine dei suoi giorni. Qui non viene offerta alcuna soluzione semplice del tipo "Ho agito per il bene comune", non c'è alcun modo di "sentirsi a posto" moralmente.

(da Slavoj Žižek, Benvenuti in tempi interessanti)

 

martedì 17 aprile 2012

liberatore o terrorista

Ma cos'è Joker nel film di Christopher Nolan Il Cavaliere Oscuro? Cos'è Joker, con il suo desiderio di svelare la verità sotto la Maschera, convinto che questo distruggerà l'ordine sociale? È un liberatore o un terrorista?





giovedì 12 aprile 2012

benvenuti in tempi interessanti

More about Benvenuti in tempi interessanti!Finito il secondo volume della saga I canti di Hyperion, passo in libreria lo stesso giorno per comprare i seguenti due e, girando nel reparto filosofia, mi imbatto tra le novità nel nuovo libro di Slavoj Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, di cui decifro subito il riferimento del titolo alla maledizione cinese contro qualcuno che si odia davvero (e a cui, quindi, si augura di vivere in un periodo di irrequietezza, guerre e lotte) proprio perché l'avevo giusto letta il giorno stesso nel finale della saga fantascientifica di Dan Simmons.
Dopo l'apocalittico Vivere alla fine dei tempi, il "filosofo più pericoloso d'Occidente" ci invita a riflettere sull'era postpolitica dell'economia naturalizzata, che si crede ormai libera da ogni forma di ideologia perché la scienza economica ci mostra ormai i fatti e perché la forma istituzionale dello Stato è ormai un dato ovvio, scontato, garantito, assodato, insomma, naturale – «la cornice democratica dello Stato (borghese) rimane la vacca sacra che anche le forme più radicali di "anticapitalismo etico" non osano mettere in discussione». Ma in realtà «non c'è nulla di "naturale" nella presente crisi» e «il sistema economico globale esistente si basa su una serie di decisioni politiche».
Per affrontare i tempi interessanti che la crisi ci propone e in cui ci sarà da divertirsi, resta invece valida, secondo Žižek, l'intuizione chiave di Marx, secondo cui «la questione della libertà non deve essere situata in primo luogo nella sfera politica vera e propria» perché «il cambiamento di cui abbiamo bisogno non è una riforma politica, ma una trasformazione dei rapporti sociali», il che comporta che la soluzione non possa derivare da elezioni democratiche o da qualche altra misura politica in senso stretto, bensì dalla lotta di classe rivoluzionaria. L'autore concorda con Badiou nel sostenere che il nome del nemico supremo odierno non è tanto capitalismo, o impero, o sfruttamento, ma piuttosto democrazia, intesa come l'accettata e diffusa illusione «che siano i meccanismi democratici a fornire la sola cornice di ogni possibile cambiamento, il che impedisce qualsiasi trasformazione radicale dei rapporti capitalistici».
Non una semplice opposizione alla democrazia parlamentare è però l'invito di Žižek per questi tempi interessanti, ma qualcosa che si muove a un livello radicalmente altro, un impegno non limitato al solo atto di voto, ma che comporti anche «una fedeltà continua a una Causa, un paziente e collettivo "atto d'amore"». Questa Causa l'autore, riprendendo ancora Badiou, la chiama comunismo, inteso come idea regolatrice che è possibile immaginare come la continuativa e «lunga tradizione del millenarismo radicale e delle rivolte egualitarie», come un'eterna idea dello «spirito egualitario mantenuto vivo nell'arco di migliaia di anni in rivolte e sogni utopici, nei movimenti radicali da Spartaco a Thomas Müntzer, incluso all'interno delle grandi religioni», come «un progetto emancipativo condiviso» che ha dato alimento «alla democrazia dell'antica Grecia, alla rivoluzione francese e a quella russa».
Con un collettivo atto d'amore impegnarsi e lottare per «prendere in modo eroico qualsiasi potere sia accessibile e, controcorrente, fare quello che si può»; una scommessa senza alcuna garanzia esterna, un correre «il rischio di compiere passi nell'abisso del Nuovo in situazioni completamente inaudite».

martedì 10 aprile 2012

tutto quello che avreste voluto sapere sulla filosofia...

Ironico e citazionista come una puntata dei Simpson, fastidioso e blasfemo – o insolente e disinvolto, come lo definisce da subito il suo stesso autore – come una di South Park, questo divertissement di Simone Regazzoni che è Martin H. Live in New York City è un riuscitissimo mash-up tra filosofia e sit-com (una phil-com, appunto), a cui chiedere, come recita il sottotitolo, tutto quello che avreste voluto sapere sulla filosofia e non avete mai osato chiedere a una sit-com.
Tra gli ampi sentieri interrotti della Grande Mela, nel bel mezzo della radura tra la giungla d'asfalto che è Times Square, Martin H. – una specie di cinico Socrate pazzo –, tra una Coca-Cola e un hot-dog (perché «il pensiero ha bisogno di corpi ben nutriti»), fa filosofia puntando il dito medio contro quei «tangheri addottrinati che inquinano la tazza della mente» e «melliflui chiacchieroni» che sono gli int. (intellettuali, parola impronunciabile per Martin). Parla barbaro, con «una voce stridente come un cane, un viso arcigno», senza «né pudore, né dolcezza, né moderazione, né rossore in faccia» e soprattutto facendo in modo che tutti sentano – perché la filosofia splende per tutti – i suoi ficosofici (filosoficamente fichi) atletismi del pensiero, facendo largo e libero ricorso a tutto il vasto e ricco patrimonio della cultura popolare (serie televisive, romanzi, fumetti, musica, etc.) per realizzare un uso perverso della filosofia: «fare un uso perverso della filosofia significa nutrire i concetti filosofici dopo la mezzanotte in modo che si trasformino in pericolosi mostri. Proprio come accade con i Gremlins. Sbucheranno dai cessi chimici dei bunker seminando il panico tra i tangheri e obbligandoli a uscire allo scoperto. E noi saremo qui a goderci lo spettacolo». Lo scopo è quello di arrivare ad avere «un fottuto supermercato con i libri di filosofia mescolati ad altri oggetti: cibo, vestiti, sex toys, cose per la casa».
Perché un filosofo è «un figlio di puttana come pochi, un bastardo senza gloria che ha il coraggio di spingere il pensiero ai limiti della stupidità. È il solo modo che abbiamo per uscire dal bunker [in cui si sono rinchiusi quei codardi di int.], svuotare la tazza [della mente] e cominciare a pensare»: la filosofia è amore del sapere e nasce dallo stupore, cioè dalla stupidità «e il suo amore, come ogni vero, grande amore, è qualcosa di stupido, magnificamente e dannatamente stupido».
Potete trovare Martin a Times Square tutti i giorni, ma solo fino alle 18.00, perché poi Mindy finisce il turno, e Martin ha un debole per lei, per Mindy che, come Lolita, è la luce della sua vita, il fuoco dei suoi lombi, il suo peccato, l'anima sua, Mindy... che quei duecento dollari l'ora li vale tutti.



 

sabato 7 aprile 2012

divertenti e graziosi giocattoli

More about La caduta di Hyperion«Possono non esistere esseri superiori divertiti da qualcuna delle graziose, per quanto istintive, attitudini in cui cade la mia mente, mentre considero la prontezza d'un ermellino o il timore d'un cervo? Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie che mostra sono belle. Per un essere superiore, i nostri ragionamenti forse assumono lo stesso tono... per quanto errati, forse sono belli. Ed è questa, la vera essenza della poesia».
Questo passaggio tratto da una lettera del poeta inglese John Keats, uno dei miei preferiti dagli adolescenziali tempi del liceo, al fratello, già citato all'interno del primo volume del ciclo I canti di Hyperion di Dan Simmons, funge da esergo del secondo, che ho giusto finito l'altro ieri.
E a me fa risuonare in mente alcuni frammenti di Eraclito, in cui l'oscuro filosofo spegne urgentemente come fosse un incendio ogni vana presunzione umana di lucida e definitiva conoscenza e comprensione della ragione e delle leggi della realtà, poiché «la qualità interiore umana, invero, non possiede gli strumenti del conoscere», non avendo natura divina, cosicché «di fronte alla divinità l’uomo risulta infantile, proprio come il fanciullo di fronte all’uomo» e le idee degli uomini non sono altro che divertenti e graziosi «giocattoli di fanciulli».
Inoltre «dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte», scrive Eraclito. Il frammento allude al gioco di parole tra biòs, arco (che, adoperato come arma, può portare la morte, uccidere), e bìos, vita; allo stesso tempo, è presente un richiamo al dio Apollo, di cui sono strumenti caratteristici sia l’arco sia la lira. Così, il senso del frammento sarebbe, secondo Giorgio Colli, che «le opere dell’arco e della lira, la morte e la bellezza, provengono da uno stesso dio, esprimono un’identica natura divina, e soltanto nella prospettiva deformata, illusoria del nostro mondo dell’apparenza si presentano come frammentazioni contraddittorie» (La nascita della filosofia).
Allo stesso tema rimanda il frammento «belle, di fronte al dio, sono tutte le cose; ma gli uomini hanno giudicato alcune cose come ingiuste, altre invece come giuste». Tutte le cose sono forme differenti in cui l’unico dio compare, dio che «si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno»: come il fuoco resta lo stesso e contemporaneamente diventa diverso, diversamente profumato e colorato, a seconda del particolare aroma che gli si getta dentro, così il dio, che è unità dei contrari, si realizza per l’uomo in un contrario o nell’altro nelle varie contingenze della vita. L’ingiustizia, la bruttezza, la negatività delle cose (le odiose zuffe di strada di cui scrive Keats) esistono solo per l’uomo, il dio non può essere assoggettato dalle categorie della predicazione umana. Viene, così, evidenziata la frattura metafisica fra il mondo e la prospettiva degli uomini e quelli degli dei. «Il mondo» – secondo Oswald Spengler – «è un enorme ed eterno àgón che si svolge secondo rigide regole di combattimento», ha il ritmo e la misura, la forza terribile, di una lotta che però, paradossalmente, «si scioglie in armonia» perché è «qualcosa che non è nulla di umano» e di cui il filosofo può godere, «gioire della leggerezza, dell’innocenza, dell’assoluta mancanza di sofferenza nello spettacolo del suo divenire e operare» (Eraclito).

giovedì 5 aprile 2012

pillole amare

Virtualmente tutti i filosofi esistenzialisti parlano in maniera diffusa del tipo di scelta operata da Neo fra onestà e ignoranza, verità e illusione, una scelta fra l’autenticità e l’inautenticità. I personaggi di Matrix e La nausea, romanzo esistenziale di Sartre, illustrano bene i pro e i contro dei due stati.
Come i classici della letteratura esistenzialista, anche Matrix illustra sia le spiacevoli conseguenze dell’autenticità sia il fascino dell’inautenticità. Il personaggio Neo è emblematico dell’agonia che accompagna il movimento verso l’autenticità e la realizzazione di questa. Neo è come il prigioniero che esce dalla caverna di Platone. Cypher, invece, illustra l’attrazione dell’inautenticità optando per l’ignoranza: «Vede, io so che questa bistecca non esiste… so che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo nove anni, sa che cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene».
Nel romanzo La nausea, Sartre dimostra come l’autenticità sembri insopportabile e l’inautenticità stessa si presenti come un rifugio. Il protagonista, Roquentin, diviene con riluttanza consapevole della vera natura della realtà. Per esempio, nello stringere la mano di un amico, la lascia andare terrorizzato perché gli dà la sensazione di “un grosso verme bianco”. Analogamente, è paralizzato dalla paura quando afferra la maniglia di una porta che sembra a sua volta afferrarlo. Quando guarda nello specchio per riprendersi, non trova alcun sollievo, alcun conforto, perché “non capisce nulla del suo volto”. Vede invece solo qualcosa “al confine col mondo vegetale, al livello dei polipi, una carne scipita che si chiude e palpita con abbandono". Inoltre, quando guarda la sua mano e al suo posto vede un crostaceo, l’impressione è talmente insopportabile che si pugnala alla mano. In tram un semplice sedile assume l’aspetto della pancia gonfia di un animale morto. Anche se pare che Roquentin stia perdendo contatto con la realtà, alla fine diviene evidente che, in effetti, sta diventando consapevole della sua vera natura. Ciò che le esperienze di Roquentin rivelano è che “la diversità delle cose e la loro individualità non sono che apparenza, una vernice” e che gli uomini esistono – e sono confinati – in un mondo essenzialmente privo di ordine e significato. Ai piedi del castagno “questo Mondo, il Mondo nudo e crudo si mostra d’un tratto”.
Sia Matrix sia La nausea dimostrano che l’autenticità è difficile non solo perché la verità che rivela è dura per lo stomaco, ma anche perché l’inautenticità è la norma della maggior parte della gente. Gli esistenzialisti imputano il prevalere dell’inautenticità tanto alla resistenza psicologica quanto all’indottrinamento sociale. Tuttavia, poiché l’inautenticità rappresenta una fuga davanti a se stessi e noi non possiamo sfuggire a ciò che siamo, una vita inautentica è caratterizzata da un certo disperato fervore e da uno sforzo perpetuo. Oltre a non riuscire a sradicare l’ansietà e a essere costretti a una sorta di “vita in fuga”, vivere in modo in autentico comporta anche la conseguenza negativa di limitare la libertà di un individuo. Anziché abbracciare l’opportunità di creare se stessi, gli individui inautentici preferiscono adottare identità predeterminate, calarsi in ruoli che gli sono stati imposti anziché ritagliarseli da se stessi. Quando accetta la vera natura dell’esistenza, Roquentin smette di correre e comincia a vivere, si impegna nell’arduo e poco attraente compito di esistere giorno per giorno ingiustificabile e senza scuse.

(Jennifer L. McMahon, Ingoiare una pillola amara: l’autenticità esistenziale in Matrix e nella Nausea, in Pillole rosse. Matrix e la filosofia)


martedì 3 aprile 2012

l'eletto

La storia della filosofia ci fornisce due opposte interpretazioni dell’idea di salvezza. Nella versione platonica, dove la fonte dell’illusione è esterna agli esseri umani che ne sono ingannati, colui che deve vincere l’illusione giunge anch’egli dall’esterno. Un uomo eccezionale, un “re filosofo”, è necessario per guidare l’umanità.
La seconda alternativa, difesa da Kant, è quella della filosofia dell’Illuminismo moderno. La sola società che ha valore è quella in cui liberi cittadini governano se stessi. Gli schiavi possono essere veramente liberi solo se si liberano da sé. Se la libertà dalle catene gli è data senza che essi vi partecipino con i loro stessi sforzi, ricadranno velocemente in uno stato di servitù. Kant sostiene che nessuno può salvarci, eccetto noi stessi. Quest’auto-liberazione dell’umanità è il destino che ciascuno di noi deve scoprire autonomamente.
Per evitare la disperazione, l’individuo deve avere fede nella possibilità di realizzare l’ideale morale come matrice di un mondo pienamente dispiegato. Kant distingue tre aspetti di questa fede, li chiama postulati, e sono: libertà, Dio e immortalità.  Tali credenze sono essenzialmente quelle dei liberatori, dei salvatori dell’umanità. Attraverso i postulati impariamo a eseguire la nostra missione terrena, impariamo cosa vuol dire essere l’Eletto, il quale può creare il mondo del sommo bene, può giungere alla terra promessa di Zion, regno celeste sulla terra.
Per vedere la nuova Matrix della mente unita, compartecipata, è necessario credere non solo che esista la libertà, ma che le persone libere abbiano il potere di creare il sommo bene, che, sintonizzandosi nella realtà della nostra unione morale, abbiano il potere di realizzare fini più elevati, di creare un mondo radicalmente differente.  Nella sala d’attesa dell’Oracolo, un “potenziale eletto” dice a Neo: «Non credere di piegare il cucchiaio. È impossibile. Cerca invece di giungere alla verità che il cucchiaio non esiste. Allora ti accorgerai che non è il cucchiaio a piegarsi, ma sei tu stesso». Noi non possiamo cambiare la realtà esterna se crediamo che sia separata da noi. Se però riconosciamo che essa è una sola cosa con noi allora basterà soltanto piegare noi stessi e il cucchiaio si piegherà. Il “sé” in un questo caso non è l’ego separato, isolato, ma il Sé più elevato in unità con il Tutto. Avremo un potere divino solo se rinunceremo all’illusione della separatezza. Neo deve imparare che non è l’Eletto, l’Unico, bensì che è Uno insieme a ogni esistenza. Ne segue che Dio dovrebbe essere visto come un’estensione di noi stessi quando trascendiamo i limiti della separatezza fisica.
La vitalità del corpo fisico dipende dalla credenza mentale nel potere ultimo della morte. È questa la regola che governa Matrix. Il potere di ogni individuo, la sua realtà, dipendono dalle sue credenze, e queste sono in ultima analisi regolate dalla paura della morte. Per compiere il proprio destino come essere morale è necessario che l’individuo abbandoni la credenza nella morte e la paura davanti a essa, perché entro i limiti di una sola vita è impossibile per l’individuo compiere il proprio supremo dovere: determinare la venuta del sommo bene. Lo scopo morale di determinare il sommo bene è qualcosa che riguarda il nostro mondo, non un altro mondo. In tal modo, l’immortalità postulata dalla moralità dev’essere un’immortalità “inframondana”.

(James Lawler, L’eletto? Noi siamo (l’)Uno! Kant spiega come manipolare Matrix, in Pillole rosse. Matrix e la filosofia)

 

domenica 1 aprile 2012

il cavaliere oscuro e la filosofia

Il volume Batman and Philosophy è probabilmente uno dei migliori della serie Pop Colture and Philosophy che io abbia letto, sia probabilmente per una mia personalissima predilezione per questa creazione fumettistica, sia però anche per una innegabile affinità tra il Cavaliere Oscuro e le sue storie e alcune tematiche e tonalità emotive tipicamente filosofiche.
Nella prima parte del testo gli autori si interrogano sul quesito se il Cavaliere Oscuro agisca sempre bene. Perché, ad esempio, Batman non uccide il Joker? “Lasci morire tante persone perché non ne uccidi una?”, chiedono Jason Todd e Hush a Batman. L’argomento in favore dell’uccisione del Joker sarebbe tipicamente utilitarista, ma i supereroi in genere non sono utilitaristici. Come si può essere sicuri che ucciderà ancora, e quindi che si stanno salvando delle vite? Sarebbe lecita una sorta di pre-punizione come quella narrata nelle vicende di Rapporto di minoranza da Philip K. Dick. Altre possibili questioni poste sono se sia giusto o meno formare e addestrare un Robin, se l'odio di Batman verso i cattivi possa essere definito virtuoso – egli si preoccupa che possa piacergli troppo, procurargli soddisfazione personale e gioia, anche se al contempo lo porta a sacrificare cose essenziali alla felicità della vita.
Gli interventi della seconda parte sono incentrati sul rapporto tra legge, giustizia e ordine sociale. Nell'arco narrativo di No Man's Land (Terra di nessuno) – che segue Contagio e Cataclisma , in cui la situazione sembra quella dello stato di natura descritto da Hobbes, si mette in luce come il principale nemico di Batman sia il caos, l’anarchia, come egli si presenti quale il difensore dell’ordine sociale. Egli è anche, però, il simbolo della giustizia e dell’ordine al di là dei diritti e della legge, contro il monopolio dello Stato, quale detentore dell'autorità e della legge, dell’uso legittimo della violenza: ne Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller si afferma esplicitamente che “Un uomo è sorto per mostrarci che il potere è, ed è sempre stato, nelle nostre mani. Siamo sotto assedio – Ci sta mostrando che possiamo resistere”.
Nella terza parte del volume si affrontano i temi etici che stanno alla base delle origini del crociato incappucciato. Ad esempio, la promessa che è a fondamento delle origini di Batman, la missione assunta sui cadaveri dei propri genitori, fa sì che il suo desiderio non sia semplice vendetta, che sia meno personale, e lo porta, invece, ad assumere un ruolo analogo a quello svolto dal padre come medico, il tutto per assicurare un’eredità alle vite dei suoi genitori: il Cavaliere Oscuro non prova solo a distruggere le forze malvagie di Gotham, ma anche a costruire qualcosa, e questo scopo costruttivo lo distingue da altri eroi come il Punitore o Rorschach
Nella quarta sezione, invece, la domanda è sull'identità di Batman, interrogandosi ad esempio sulla decisione consapevole da parte di Bruce Wayne di creare l’identità di Batman, nata dall'incontro tra Bruce e il pipistrello e dalla scelta di abbracciarlo, che ricorda un po' la parabola del pastore e del serpente nello Zarathustra di Nietzsche,  oppure chiedendosi se Batman avrebbe potuto essere il Joker.
La quinta parte presenta un tono esistenzialista, affrontando i temi della morte, dell'angoscia e della libertà. Viene analizzato, ad esempio, il senso di colpa per la morte dei genitori provato da Bruce. Sentito come soffocante, esso inizialmente dischiude ad un livello fondamentale dell’esistenza come colpa dell’essere, a un senso di nullità. Questa fragilità ha però il potere di trasformare la vita: la colpa si trasforma da semplice biasimo a comprensione che ognuno è colpevole perché deve prendere una posizione e dare testimonianza su chi è e come vive. Scegliendo di liberare se stesso dalla tipica risposta alla sua personale tragedia, cioè rabbia cieca e vendetta, Bruce interpreta l’evento della morte dei propri genitori come un richiamo a ribellarsi contro una vita di vittimizzazione, commiserazione e cinismo. Così facendo Bruce redime una tragedia senza senso affrontando l’insensatezza della violenza in sé, così la colpa che inizialmente lo aveva condannato diventa un richiamo ad essere se stessi, e così Batman diventa l’autentica coscienza di Bruce, accettando che essere è essere ansiosi su chi si è.
Nella sesta ed ultima parte, infine, il tema è quello dei molti ruoli dell'Uomo Pipistrello. Si affronta il tema della natura dell'amicizia analizzando il rapporto tra il Cavaliere Oscuro e Superman. Superman e Batman sono amici, ma danno all’amicizia l’un per l’altro un diverso significato, poiché il primo ne ha un concetto che sembrerebbe ripreso da Aristotele (amicizia come rapporto tra due eguali, tra due uomini buoni che si amano puramente e semplicemente per quello che sono, per i rispettivi caratteri, spingendosi a migliorarsi  senza false adulazioni: se venisse il momento, Superman sa che Batman sarebbe l’unico ad usare volontariamente l’anello di kryptonite contro di lui, e questo anello è allora una testimonianza di questo aspetto dell’amicizia, che serve a mantenere Superman buono), mentre il secondo una visione più simile a quella nietzschiana fondata sul rispetto dovuto a un rivale, e considerando Superman un suo pari ma in quanto a potenza, ammirando in lui un monumento vivente di ciò che l’uomo potrebbe essere, ma a cui deve insegnare (e la lotta è il terreno migliore) a non credere alla propria invulnerabilità, a non essere arrogante, impartendogli la lezione imparata dall’assassino dei suoi genitori.

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