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giovedì 31 ottobre 2013

letture di ottobre (II)

Mi ci sono voluti due mesi per completare la lettura del romanzo di Louis-Ferdinand  Céline Viaggio al termine della notte. Certo non consecutivi, un periodo di lettura comprendente anche pause, a volte brevi e frequenti, altre lunghe, quasi da sembrare una lettura abbandonata. E pause durante le quali il libro non mi è mancato, durante le quali non ho provato l'urgenza di tornare a leggerlo o sofferto la sua mancanza. Eppure tutto ciò non è affatto segno di una negativa esperienza di lettura. Certo questa di Céline non è una lettura facile, semplice, scorrevole, e oserei dire neanche forse propriamente gradevole: il linguaggio è ostico, il lessico gergale, la grammatica rotta, spezzata, inusuale, e anche i temi e la visione del mondo attraverso cui sono percepiti e narrati non rendono certo il romanzo una comoda e poco impegnativa lettura. Critico ma non rivoluzionario, nichilista certo non attivo ma nemmeno disperato, scettico e cinico ma anche stoico e forse pure un po' epicureo, il protagonista e io narrante più che "fare cose" per le quasi 500 pagine del romanzo vive continui cambiamenti di scene, sfugge e migra da un'ambientazione all'altra della sua vita: la guerra ("Sì, assolutamente vigliacco, Lola, rifiuto la guerra e tutto quel che c'è dentro... Non la deploro, io... Non mi rassegno, io... Non mi piagnucolo addosso, io... La rifiuto recisamente, con tutti gli uomini che contiene, voglio averci niente a che fare con loro, con lei"), le colonie africane, gli Stati Uniti con l'alienante lavoro in fabbrica ("Tremava tutto nell'immenso edificio e tu anche dalle orecchie ai piedi posseduto dal tremore, veniva dai vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, a scossoni, vibrato dall'alto in basso. Diventi macchina per forza anche tu e con tutta la tua carne tremolante. Ci si arrende al rumore come ci si arrende alla guerra"), i sobborghi parigini con la loro "festa ingannapopolo di fine settimana", la clinica psichiatrica. Arrivato al fondo della notte, di "una notte enorme che si mangiava la strada", dopo che "ti sei mangiato tutta la poesia" e che forse in gioventù potevi ancora avere e "non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita", "a 37° tutto diventa banale" e si ha coscienza che "non si può spiegare nulla", che "il mondo sa solo ucciderti come un dormiente quando si gira, il mondo, su di te, come un dormiente uccide le sue pulci". Che la nostra più autentica possibilità è la morte, ma anche se ciò rende la vita una "farsa atroce del durare", fa di "questa ostinazione a perseverare nel nostro stato un'incredibile tortura", anche se si arriva a dichiarare "io non credo all'avvenire" (non c'è impegno, passione, fede, amore, progresso che tenga), comunque "non c'è che la vita che conta".


La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer è una splendida saga di tre generazioni di ebrei polacco/tedeschi che si dipana dagli inizi del Novecento all'avvento del potere nazista e la conseguente emigrazione negli Stati Uniti. Straordinario il modo in cui la Storia dell'uomo e le storie degli uomini, il destino e le vite, si intreccino a costituire la trama di questo romanzo. Straordinaria la coralità e la polifonia della narrazione, nonostante l'assoluta centralità dei tre protagonisti delle diverse generazioni della famiglia Karnowski, ogni individuo che compare nel testo è ben designato, presentato, caratterizzato a tutto tondo. Straordinario il modo di rendere emozionante e convincente la classica complementarietà filosofica e storica tra la banalità del male e la fragilità del bene: "Strade che portavano i nomi di Kant e Leibniz vedevano sfilare giovani non privi di istruzione che brandivano randelli e inneggiavano alla violenza e all'assassinio. David Karnowski si sentiva ingannato dalla città del suo maestro Mendelssohn". 

sabato 12 ottobre 2013

letture di ottobre (I)

Ancora il corso su moderno e postmoderno, e la tappa di questa parte riguarda Horkheimer, Adorno e Foucault.
Di Michel Foucault mi è toccata una doppia razione. Prima, la lettura di Che cos'è l'illuminismo?, un breve articolo in cui il filosofo francese rileva l'importanza dell'omonimo scritto di Kant nel suo essere - con il suo riflettere sul proprio presente, sulla pura attualità, sul momento singolare in cui si scrive e a causa del quale si scrive, sull'oggi quale motivo per un compito filosofico particolare - l'abbozzo di ciò che si può chiamare l'atteggiamento moderno, consistente nell'assumere se stessi come oggetto di un'elaborazione complessa e ostica, in un'indagare archeologico e genealogico le contingenze che ci hanno fatto essere quello che siamo e la possibilità di non esserlo, farlo o pensarlo più, rilanciando un indefinito lavoro di libertà. Allo stesso tempo, l'articolo di Kant è la giustificazione della più vasta e complessa elaborazione filosofica sviluppata nelle tre Critiche: esse hanno il compito di definire le condizioni di possibilità in cui l'uso della ragione è legittimo per determinare ciò che si può conoscere, che si deve fare, che è permesso sperare, nel momento in cui la ragione, con l'illuminismo, è divenuta "maggiorenne". Seconda, quella di Storia della follia nell'età classica, nella sua parte iniziale sul "grande internamento": la tracciatura di una linea di separazione ben marcata tra ragione e follia che passa per l'istituzione delle grandi case di internamento per poveri, disoccupati, corrigendi e insensati - a un tempo luoghi di assistenza e repressione, beneficio e punizione, ma legati a nessuna idea medica quanto piuttosto a un'istanza di ordine e a un esercizio di riforma e coercizione morale (stupefacente sintesi di obbligo morale e legge civile, morale impartita per via d'assegnazione amministrativa)  -, assecondando l'idea borghese secondo cui la virtù è un affare di Stato e la repubblica del bene va imposta con la forza a tutti quelli sospettati di appartenere al male. Insomma, prigioni dell'ordine morale fondate sull'idea che se si è riusciti a sottomettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l'uomo che si è fuorviato.

Per Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, invece, la lettura è stata quella di Dialettica dell'illuminismo. "La terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura" che irradia da una ragione che ha divorziato dalla verità per l'operatività e il procedimento efficace, che ha rinunciato al significato e sostituito il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità. Per i due filosofi della Scuola di Francoforte "l'illuminismo è totalitario", impone un dominio integrale, patriarcale e livellatore (dell'astratto e dell'industria) che segna il trionfo dell'uguaglianza repressiva, il dispiegarsi dell'uguaglianza giuridica in ingiustizia inflitta, dispiegarsi che è una degenerazione che ha luogo quando "la giustizia si perde nel diritto". L'umanità moderna e illuminata ha dovuto sottoporsi a una serie di spaventosi trattamenti perché nascesse e si consolidasse "il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell'uomo". Il risultato, però, è stato quello di un pensiero reificato e trasformato in un processo automatico, dell'accantonamento dell'esigenza classica di "pensare il pensiero", quest'ultimo ridotto, invece, in cosa e strumento, limitato a compiti organizzativi e amministrativi degni di ottusi e ingenui direttori generali.

venerdì 4 ottobre 2013

la filosofia della guerra al terrorismo

Con Stato di legittima difesa, Simone Regazzoni prova a pensare la politica di Obama e la guerra al terrorismo al di là di ogni sterile panico libertario e di ogni critica alla guerra mossa da astratte posizioni pacifiste, riconoscendo al Presidente statunitense la capacità di "agire politicamente misurandosi con il reale del momento storico presente", di "rispondere a ciò che accade" anche a costo di dover "rompere con un certo orizzonte di sapere, di norme e di valori" decostruendo l'abituale discorso progressista e reinventando la democrazia. Questa reinvenzione passa attraverso l'elaborazione di un nuovo paradigma politico, giuridico e militare che l'autore chiama, appunto, stato di legittima difesa e che la cui articolazione comprende la dichiarazione di uno stato di emergenza, il rafforzamento del potere esecutivo, l'uso della forza letale (nella forma privilegiata dell'omicidio mirato, eventualmente anche preventivo) contro un nemico assoluto (Carl Schmitt) che deve essere annientato in una guerra apparentemente permanente.
A meno di non giudicare il terrorismo una strategia di lotta legittima, argomenta Regazzoni, non è possibile attribuire al terrorista la qualifica di combattente per la libertà (freedom fighter); gli spetta, piuttosto, quella di nemico combattente (enemy combatant) o combattente illegittimo (unlawful combatant) o ancora nemico combattente non privilegiato (unprivileged enemy belligerant), designando in ogni caso il suo statuto come al di là del civile e del militare. È necessario, invece, abbandonare una certa cultura delle scusanti e delle giustificazioni tipica degli anni Sessanti e Settanta e riconoscere il terrorista quale "minaccia assoluta" e "male assoluto", quale "nemico trascendentale della democrazia", perché "incorpora in sé lo spettro del weapons of mass destruction", dell'arma terrificante che viene dall'avvenire, lo spettro del peggio a venire (Jacques Derrida), perché "minaccia la democrazia in quanto spazio di apertura all'Altro". Per annientare un tale nemico assoluto occorre "una guerra legittima di difesa ossessionata dallo spettro della distruzione totale a venire" (ossessione e forse una certa paranoia che non sono mali ma spinte immunitarie della democrazia); guerra che possiede la qualità ideale di essere perpetua, di non poter essere vinta e perciò di non dover essere mai terminata (Peter Sloterdijk), così da decostruire l'opposizione tra guerra e pace.
La forza letale-vitale di legittima difesa che tale guerra dispiega dispone di non convenzionali ma necessarie e appropriate strategie quali la prevenzione contro minacce imminenti e future (pre-emption e prevention), l'attacco anticipato (strike first, anticipatory attack), la pianificazione su larga scala e lungo periodo delle operazioni di omicidio mirato (targeted killing, kill list).
Ora che la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt appare come nuovamente invertita (Slavoj Žižek), Obama per Regazzoni è quindi "il nome di questa forza letale-vitale di legittima difesa della democrazia, di questa forza della democrazia che dà il meglio di sé facendo appello al proprio rimosso" (cioè l'uso della forza letale, una forza crudele e disumana ma al contempo giusta), di questa forza che non è "un fenomeno transitorio legato a una situazione di emergenza ma l'invenzione di un nuovo paradigma della democrazia".
Il rimosso che ritorna con Obama è anche quello della giustizia come vendetta, riparazione di un torto, momento catartico: torna quello "spettro che ossessiona il potere americano" che è la pulsione eroica che minaccerebbe la democrazia. Questa riattualizzazione "di una certa forma di violenza - al contempo assolutamente crudele e giusta - incarnata nella figura del giustiziere", porta Regazzoni a trattare nell'ultimo capitolo del suo saggio la trilogia che Christopher Nolan ha dedicato a Batman, il Cavaliere Oscuro (Dark Knight), saga cinematografica assillata proprio dallo spettro del peggio a venire, dell'imminenza "di un avvenire peggiore di tutto quello che è già accaduto". 
Le pellicole di Nolan rappresentano il montaggio e messa in scena della risposta attraverso una forza di legittima difesa a tale infestante spettro (dell'annientamento di Gotham attraverso armi di distruzione di massa), incorporato nel trauma dell'omicidio dei genitori del piccolo Bruce Wayne, e al contempo dei "rischi autoimmunitari di questo dispositivo eccezionale di difesa che rischia sempre di sopprimere ciò che vorrebbe salvare". Il corpo del Cavaliere Oscuro si presta quale trasfigurazione cinematografica di questo lavoro sul dark side della politica, di questa "pulsione eroica incriptata al cuore della democrazia" che non va esorcizzata come fascista (pur rimanendo "il fascismo una delle sue pericolose declinazioni possibili") ma pensata "in termini politici come forza, al di là della legge, di difesa della democrazia nel contesto di un nuovo tipo di guerra", come supplemento di forza insieme fuorilegge e al servizio della legge, che la sospende e conserva a un tempo, che la minaccia e protegge, come "una giustizia - al di là della legge - che coincide con la salvezza, con la salvezza della democrazia".
Il saggio di Regazzoni ha l'audacia di pensare tutto ciò, di non limitarsi a criticare la guerra. Regazzoni ha l'indubbio merito di non essere un pensatore pusillanime, di non cercare nel politicamente corretto l’alibi perfetto per nascondere l'assenza di coraggio necessario a farsi carico di pensare un fenomeno come la guerra al terrorismo nella sua dimensione perturbante.



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