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martedì 31 dicembre 2013

letture di dicembre (II)

Tre libri della ISBN Edizioni, entrambi acquistati durante l'ultima fiera romana della piccola e media editoria (insomma, Più libri più liberi): Il libro segreto delle cose sacre e L'isola dei pinguini, Dio odia il Giappone.
Dopo aver molto apprezzato Callisto, di Torsten Krol ho letto Il libro segreto delle cose sacre, romanzo meno originale e divertente del precedente ma comunque godibile e più che gradevole. Niente di più, però, nessun particolare entusiasmo. L'impatto di una "grande pietra" ha sconvolto, per non dire quasi estinto, la vita umana sulla Terra  e ha portato alla fondazione di un nuovo stile di vita, dove a controllare e dominare la società umana sono le donne (visto che è colpa degli uomini se è successo quello che è successo), la religiosa sorellanza di Selene (perché è solo grazie alla Luna, che ha "assorbito" l'impatto di questo corpo celeste, che qualche comunità è sopravvissuta). Ma questa nuova utopia sembra già destinata a naufragare: la stessa Luna sembra minacciare ora la Terra con periodici lunamoti e non tutti gli uomini sembrano aver preso bene il cambiamento.

Un pio monaco cieco, naufragato su un'isola lontana, scambiandoli per uomini di piccola statura battezza i pinguini che colonizzano il luogo. Per rimediare all'errore del sant'uomo, Dio è convinto, dopo l'ampia discussione di un'assemblea del Paradiso, a donare un'anima a quegli uccelli e trasformarli in uomini. Da questa premessa inizia la storia de L'isola dei Pinguini, che Anatole France narra con estrema ironia e cinismo ma anche con dettagliato e critico spirito storiografico. Pinguinia attraversa tutte le figure e le tappe della storia dell'umanità, dal Medioevo superstizioso al Rinascimento delle arti e della cultura, dall'epoca moderna - con i suoi intrighi e cospirazioni, rivoluzioni e reazioni, casi giudiziari, trasformismi, sobillazioni dell'opinione pubblica, intrecci di politica ed economia, piani ideologici - ai tempi futuri - in cui tutto cambia ma, forse, per poi ricominciare daccapo con i cicli, corsi e ricorsi storici che riporteranno ancora una volta all'arricchimento e all'espansione della capitale in maniera smisurata, alla necessità di sopraelevare di continuo le case costruendovi sopra trenta o quaranta piani - dove accatastare uffici, depositi, succursali di banche, sedi di società -, allo scavo sempre più profondo nel sottosuolo, tutto senza apparentemente aver imparato nulla, senza che la processualità storica abbia portato l'uomo all'autocoscienza, la realtà alla consapevolezza del concetto.  
"Visto che la ricchezza e la civiltà sono fonti di guerre, non meno della povertà e delle barbarie, visto che la follia e la cattiveria degli uomini sono inguaribili, rimane solo una buona azione da compiere. Il saggio ammucchierà tanta dinamite quanto basta a far saltare in aria questo pianeta. Quando volerà in pezzi nello spazio, un miglioramento impercettibile si sarà verificato nell'universo e sarà concessa una soddisfazione alla coscienza universale, che d'altra parte non esiste". 

Non mi è sembrato né un romanzo d'amore né da fine del mondo - come invece recita il sottotitolo italiano - quello di Douglas Coupland Dio odia il Giappone, ma un romanzo che vorrebbe essere di formazione in anni difficili (Ottanta e Novanta del secolo scorso) e in un paese peculiare (il Giappone), senza riuscire ad esserlo. "Spero che tu viva quello che ho vissuto io", scrive il protagonista Hiro al suo ipotetico clone del futuro, "quel tipo di esperienze che ti trasformano da pani di ghisa in acciaio temprato, da feccia stagnante su una pozza d'acqua a libellule e fiori di loto", ma poi non sembra esserci nulla di ciò nel romanzo, nessuna esperienza temprante, solo rare immagini meglio riuscite di una generazione che vive lo sgretolarsi delle tradizioni passate: "Secondo me la gente della mia non-generazione, in sostanza, è la versione corrotta di un sistema più vecchio dalla purezza indiscussa: un sistema semplice, come i Lego. Siamo mattoncini personalizzati e deformati e non ci incastriamo su nessuna piattaforma; presi in gruppo, non ci possono assemblare per costruire nessun oggetto particolare".  Non c'è traccia nella storia neanche di quel presunto coraggio che il protagonista si attribuisce di dire no e contrastare gli standard consolidati, di quel presunto grande impegno per rifiutare le cose che ti hanno insegnato a venerare, sembra esserci, invece, rassegnazione, passività, attesa, immobilismo. A parte l'incongruenza tra come l'io narrante si racconta e quello che racconta, i capitoli scorrono sufficientemente gradevoli, anche grazie alle illustrazioni di Michael Howatson.

venerdì 27 dicembre 2013

letture di dicembre (I)

Il romanzo di A.S. Byatt Ragnarök, prendendo le mosse dalla lettura da parte di una bambina magra dei miti nordici durante la sua forzosa ma relativamente sicura vita in campagna, mentre Londra e il resto del mondo affrontano la seconda guerra mondiale - pretesto in realtà piuttosto labile, visto che questa vicenda si limita a fare da inconsistente cornice che non riesce a interagire con il vero nucleo della narrazione -, ci riracconta le leggende di Asgard, del suo mondo che è "un cadavere in boccio" e del suo cielo che è "la scodella di un teschio", tra descrizioni che hanno il fascino della vertiginosa lista infinita e dell'elenco classificatorio di manuali di biologia e narrazioni di gesta eroiche, ma di un eroismo già in piena decostruzione visto che gli dèi nordici sono piuttosto umani,  "umani in quanto limitati e stupidi", avidi e crudeli, impegnati "a combattere e giocare, a cacciare e fare scherzi". Quelli narrati dalla Byatt sono dèi che "sanno che verrà il Ragnarök, ma sono incapaci di immaginare un modo di evitarlo, o di cambiare la storia. Sanno morire valorosamente ma non sono capaci di creare un mondo migliore. Di fatto, il mondo finisce perché né gli dèi troppo umani, con i loro eserciti e i loro dissidi, né il focoso pensatore [Loki - la distaccata intelligenza scientifica capace di salvare la terra o di accelerarne la distruzione -], sanno come salvarlo". Questi dèi dovrebbero essere i ceppi e le catene "che tengono insieme il mondo, entro limiti dati, impedendo il dilagare di caos e disordine", ma tutto l'ordine che riescono a imporre ("il movimento di luce e buio, il succedersi del giorno e della notte e delle stagioni") non è, in realtà, che  il "prodotto della paura, dei lupi mentali":  "L'ordine veniva dai vincoli e da zanne e artigli minacciosi". Un ordine altamente instabile, dunque, e la fine degli dèi non ne è che l'inevitabile esito.

Assolutamente deludente il contributo popfilosofico di Francesca Rigotti sulla filosofia di una soap opera come Un posto al sole. L'analisi proposta non è per nulla seria ma neanche divulgativa o di puro intrattenimento. Illustrati i motivi idiosincratici che hanno portato la filosofa ad essere una affezionata spettatrice della saga nazional-popolare italiana, affrontato il breve excursus sul titolo - a ritroso dallo spirito imperial-colonialista tedesco primo e fascista poi, ai pensieri di Pascal (ripresi da Rousseau) sull'origine della proprietà dalla dichiarazione "questo è il mio posto al sole", alla richiesta di Diogene il cinico ad Alessandro Magno di spostarsi perché "gli toglieva il sole" -, non rimane che una serie di chiacchiere da bar indegne di un festival della filosofia. La popsophia è altro.
Decisamente migliore, più appagante e interessante, l'esperienza di lettura del saggio di Andrea Tagliapietra Non ci resta che ridere, di cui ho già scritto.

giovedì 26 dicembre 2013

il sorriso e l'enigma

Nel suo saggio Non ci resta che ridere, Andrea Tagliapietra affronta l'epoca della massa ridente, quell'epoca (la nostra) che segue alle età antica e medioevale (in cui il riso era rispettivamente divino e diabolico, ma comunque sempre trascendente) e radicalizza quella moderna (il cui riso immanente fonda la serietà che modella la struttura della realtà, la sua presa in carico se non la sua docile e acritica accettazione) scivolando "verso la banalità e la grigia quotidianità delle passioni tristi, verso la noia e il trastullo" del riso inautentico, anonimo, finto (Heidegger) dell'ultimo uomo - che "soffre così profondamente da aver dovuto inventare il riso" (Nietzsche) -, quel riso registrato e confezionato delle sit-com, quel riso delle pubblicità e del consumo. 
Un'epoca che rischia la "fine del riso" ha bisogno di ridestare il senso autentico del ridere, di quel "proprio" dell'uomo - come volevano Aristotele ("l'uomo soltanto, fra tutti gli animali, ride") e Porfirio - che è il ridere, diaframmatica e liminare piega tra la ragione e il sentimento, la mente e il corpo, l'interno e l'esterno, il sé e l'altro, che mette profondamente in crisi ogni concezione dualistica di ascendenza cartesiana. Ha bisogno di riconoscere che la drammaturgia del riso mette in atto un perturbante e socratico moto centrifugo che finisce per far riconoscere allo spettatore della scena comica di essere "decentrato rispetto a se stesso, alla sua singolarità e alla presunta stabilità delle sue convinzioni, perché il ridicolo e il comico sostituiscono alla figura della necessità la categoria del caso, dell'accidentalità e della casualità". E ridere per il gioco del caso significa perdere la propria presunta padronanza e mettersi in gioco, relativizzare la realtà mettendola in rapporto di continuità con la possibilità, con il forse potrebbe essere che guasta l'intrasformabilità del reale sostenuta dagli accademici e parlamentari agelasti ("coloro che non ridono", secondo Rabelais) e preserva la ricchezza dell'esperienza umana.
Se ormai "il riso della massa ridente è un'arma spuntata che riconosce la propria debolezza e trasforma la protesta in autoderisione e, quindi, in beffarda e amara rassegnazione", il riso autentico, comico, eversivo, invece, rende percepibile "una frattura, una soluzione di continuità, una sospensione della quotidianità e delle norme logiche" all'interno dell'esperienza della realtà, permettendo di intravedere un'altra dimensione: riconoscendo e cogliendo l'accidentalità e il caso, il riso mette in fibrillazione la realtà, ne destabilizza il significato ideologico come ciò a cui ci si deve adeguare, come ordine costituito cui obbedire, riapre invece i giochi della realtà e permette di pensare la possibilità al posto della necessità e dell'assolutismo. 
E permette di pensarlo non come problema da risolvere, bensì come "enigma che,come tutti i veri enigmi, non chiede soluzione, ma la risoluzione di esserne all'altezza e di saperlo sopportare": il sorriso e l'enigma è il binomio con cui si conclude il saggio di Tagliapietra. "Il sorriso accoglie l'enigma in sé e vi risponde nell'unico modo consentito, ossia dimostrando di esserne all'altezza", di saper sopportare la struttura paradossale della condizione dell'essere umano, la duplicità e l'ambivalenza di chi "luccica di guizzanti enigmi e risate" (Nietzsche).

mercoledì 25 dicembre 2013

il perturbante

Quello di perturbante è un concetto al quale Sigmund Freud ha dedicato nel 1919 un breve saggio – Das Unheimliche, appunto –, in cui si inizia da un’indagine etimologica della parola. Il significato di perturbante «si riallaccia indubbiamente a ciò che è spaventoso, che suscita terrore e orrore» e, più in generale, «tende a coincidere con ciò che suscita paura», con lo strano, il fantastico, l’ignoto. Più nello specifico, continua Freud, è «un genere di spavento che si riferisce a cose da lungo tempo conosciute e familiari», ma che, in determinate occasioni, diventano inquietanti e spaventose. Nonostante la parola tedesca unheimlich sia l’opposto di heimlich e di heimisch, che hanno il senso di casalingo, familiare, nativo, abituale, è lo stesso termine heimlich a possedere una certa ambiguità di significato, riferendosi a due ordini di idee assai diversi se non proprio opposti: «da una parte ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato».
A questo punto Freud dapprima chiama in causa Schelling, nel tentativo di sciogliere l’enigma: secondo il filosofo tedesco, il senso di perturbante è riferibile a «tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce», come se dall’idea di casalingo, appartenente alla casa, nascesse l’idea di qualcosa sottratto alla vista degli estranei, nascosto e segreto. Successivamente, comincia la sua analisi più propriamente psicoanalitica, collegando quest’idea del “segreto venuto alla luce”, inaspettatamente, involontariamente, con la possibilità che qualcosa di analogo avvenga anche nell’attività della psiche umana: «l’elemento spaventoso», allora, sarebbe «costituito da qualcosa di rimosso che si ripresenta», non, in realtà, da qualcosa di nuovo o estraneo, ma da «un elemento ben noto e impiantato da lungo tempo nella psiche, che solo il processo di rimozione poteva rendere estraneo». Così, secondo Freud, il perturbante sarebbe un fatto intimamente familiare che riemergerebbe dopo essere stato sottoposto a un processo di rimozione, un residuo di attività psichica riportato alla luce.
Per illustrare questa sua analisi con un esempio, Freud affronta, tra gli altri, il tema del “doppio”:

«Il “doppio” era, all’origine, un’assicurazione contro la distruzione dell’Io, “un’energica negazione del potere della morte”, come dice Rank, e, probabilmente, l’anima “immortale” fu il primo “doppio” del corpo. Tali idee sono nate dal terreno di un illimitato egoismo, dal narcisismo primario che domina la mente del fanciullo e del primitivo. Ma quando questo stadio sia superato, il “doppio” inverte il suo aspetto. Da assicurazione contro la morte diventa il perturbante annunciatore di morte».

Il “doppio”, da assicurazione contro la morte e garanzia di immortalità concepite e prodotte da un pensiero ancora infantile e primitivo, oltre che primariamente egoistico e narcisistico, capovolge il suo senso in quello di perturbante messaggero di morte. Questo prodotto psichico, però, può successivamente, con nuovi stadi di sviluppo dell’Io, ricevere ancora ulteriori e nuovi significati, quali quello di funzione di auto-osservazione e autocritica:

«Può ricevere nuovi significati dai successivi stadi di sviluppo dell’Io. In esso si viene lentamente formando uno speciale ente, atto a sovrastare al resto dell’Io, la cui funzione consiste nell’osservare e criticare la personalità, esercitando una censura nell’ambito della mente, censura della quale noi siamo consapevoli e che chiamiamo “coscienza”».

Oltre che come “coscienza” osservatrice, critica e censoria, il “doppio” può anche assumere l’aspetto di immagine di un Io ideale, possibile, alternativo, sostenuto dall’idea della nostra sostanziale libertà di scelta:

«I futuri non adempiuti, ma possibili, cui ci piace ancora attaccarci nella nostra fantasia, tutti gli sforzi dell’Io che circostanze esteriori avverse hanno reso vani, tutte le azioni volitive soppresse».

Un Io incompiuto ma, forse, ancora possibile, rimasto pura fantasia solo per contingenti e contrarie situazioni. Ma, continua Freud, un impulso difensivo sembra aver «obbligato l’Io a proiettare all’esterno detto materiale, quasi si trattasse di qualcosa di estraneo. A conti fatti, l’aspetto perturbante del “doppio” non può derivare da altro se non dal fatto che esso è una creazione che risale a uno stadio mentale molto primitivo, da lungo tempo superato, durante il quale, sia detto tra parentesi, il “doppio” appariva sotto un aspetto più amichevole».
Proiettato all’esterno perché ormai prodotto psichico superato, che, in un certo senso, ha fatto il suo tempo, questo “doppio” inizialmente familiare, intimo e amichevole può ripresentarsi, improvvisamente, come qualcosa di ormai apparentemente estraneo, insolito, inquietante. Una regressione, quindi, il ritorno di complessi infantili o primitivi rimossi, sono la fonte da cui scaturirebbe il senso del perturbante: «Si ha una sensazione perturbante quando una data impressione riporta a nuova vita complessi infantili rimossi, oppure quando credenze primitive e superate sembrano trovare una conferma», conclude esplicitamente Freud.

«Prendiamo il perturbante legato all’onnipotenza del pensiero, all’esaudimento istantaneo dei desideri, ai poteri malefici occulti e al ritorno dei morti. Un tempo noi, o i nostri progenitori, credevamo che queste possibilità fossero realtà ed eravamo convinti che si realizzassero effettivamente. Oggi non ci crediamo più, avendo superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo assolutamente certi delle nostre nuove credenze e quelle vecchie esistono tuttora in noi, pronte ad approfittare di tutto ciò che possa dare loro conferma. Non appena nella vita ci succede effettivamente un fatto, che sembra confermare le vecchie, rigettate credenze, siamo presi da un senso di perturbamento».

Credenze infantili, primitive, superate e rimosse – nostre o dei nostri progenitori – possono tornare, approfittando prontamente di situazioni esterne che sembrano riconfermarle, e mettere quindi in crisi e in discussione le nuove credenze, che sembravano ormai acquisite, salde e sicure, ma di cui invece, evidentemente, non si è affatto assolutamente certi. Il sentimento che si prova in queste incredibili (uncanny) circostanze è il perturbante.



martedì 24 dicembre 2013

farò la mia felicità

I'll make my own happyness.

(Psylocke, da Uncanny X-Force #15 del dicembre 2013).

Qui disegnata da due autori che hanno segnato i due volumi di Uncanny X-Force di cui è stata protagonista negli ultimi anni: Phil Noto e Adrian Alphona.

 



domenica 22 dicembre 2013

un uomo ragno superiore

Dopo gli eventi di Amazing Spider-Man #700, ora abbiamo un Uomo Ragno "superiore", più severo, che lavora fuori dalla legge facendo del bene, che cura le cause della malattia e non si limita a trattarne i sintomi, simile a uno spietato vigilante alla Batman - o alla Moon Knight, per rimanere in casa Marvel e non scomodare la Distinta Concorrenza.

"Guardate: mentre Parker trattava i sintomi... io, Otto Octavius, eliminerò la malattia. Libererò la città dal crimine. Vi salverò tutti. D'ora in poi sarò un eroe migliore di quanto meritiate!".

(da Superior Spider-Man #10, del luglio 2013, in Italia Superior Spider-Man #4 del dicembre 2013)


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