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giovedì 15 maggio 2014

il superuomo di massa (2di4)

La grande stagione del feuilleton è quella delle rivoluzioni borghesi di mezzo ottocento, con il loro riformismo populista e premarxista. La dinamica sollecitazione-soluzione (o meglio: provocazione-pace) unita con la sua vocazione populistica, fa sì che il romanzo popolare sia un repertorio di denuncia circa le contraddizioni atroci della società (si pensi a I Misteri di Parigi o a I Miserabili) ma che sia al tempo stesso un repertorio di soluzioni consolatorie, una macchina per sognare gratificazioni fittizie che incarna una ideologia riformistica. La società borghese è il regno del fattuale e il romanzo ne è il mutevole e funzionale trattato teologico. Il romanzo conservatore del tardo ottocento e quello reazionario del primo novecento (di cui Arsenio Lupin, nazionalista “professore di energia” è il modello spregiudicato e salottiero) useranno l’armamentario del feuilleton avulso dal suo contesto funzionale: vendette e riconoscimenti agiranno a vuoto, senza più alcun progetto di risarcimento sociale. Se i surrealisti impazziranno per le avventure di Fantômas sarà perché quivi riconosceranno la sagra della gratuità dissennata. La parabola del feuilleton lo vede approssimarsi sempre più a una forma di narrativa di cui è esempio lampante lo stesso perfetto congegno del romanzo poliziesco, in cui l’ordine sociale è sottofondo flebile e pretestuoso appena avvertibile. Il detective di Conan Doyle non è affatto un giustiziere sociale come il Rodolphe di Sue, e nemmeno un giustiziere individuale come Montecristo: coltiva con passione egocentrica la propria abilità.
(Umberto Eco, Il superuomo di massa

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