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venerdì 31 ottobre 2014

letture di ottobre

Un'opera-mondo, un romanzo enciclopedico è la caccia alla balena Moby Dick, di cui Herman Melville fa raccontare le memorie all'unico superstite della baleniera guidata dal monomaniaco capitano Achab. Biologia marina ed evoluzionismo, storia dell'arte ed estetica dei colori (la purezza e la terribilità, la santità e la spettralità del bianco), teologia e meteorologia, filosofia ed economia, antropologia e culinaria, cantieristica e macelleria. Questi i mondi in cui naviga il libro di Melville, che però è e resta soprattutto un classico e appassionante racconto di una grande avventura. 

Come da programma, dopo Il potere del cane ho letto altro di Don Winslow e, ancora una volta fedele ai miei propositi, proprio quel Satori che è prequel dello splendido Shibumi di Trevanian. E per fortuna lo ho letto dopo quest'ultimo, perché senza il ricordo di quello straordinario personaggio che è Nikolaj Hel per come emerge dalle pagine di Trevanian, questo romanzo di Winslow sarebbe stato forse deludente, invece riesce a risultare comunque gradevole, piacevole, seppur non bellissimo, perché brilla di luce riflessa, ha il merito di far lievemente riassaporare tutto il fascino della storia originale.  

Gradevole e piacevole la favola de La piccola mercante di sogni scritta da Maxence Fermine a partire dal sogno di uno dei suoi figli, senza grosse pretese.


Un eroe inadeguato, detective a riposo e sovrappeso, due improbabili alleati, un avversario folle e geniale (o fortunato?), una storia semplice magistralmente intrecciata. Ancora una volta, con l'ultimo romanzo Mr Mercedes, Stephen King dà prova della propria arte narrativa componendo un appassionante thriller.

Warren Ellis è uno dei miei autori preferiti di fumetti. Mi piace molto lo stile visivo di Adi Granov. Iron Man è un personaggio dei comics Marvel di cui mi sto sempre più interessando e che sto scoprendo. Quindi perché non avevo ancora letto la saga Extremis? Scritto dal primo, disegnato dal secondo, con protagonista il vendicativo "uomo di ferro", è davvero un gran bel fumetto.
Bello nella storia (di Fabio Geda e Marco Magnone) e delicato e affascinante nei disegni (di Ilaria Urbinati) il diario fantastico di Alessandro Antonelli, Architetto, A.A.A.: la storia della sfida alla verticalità, campo di battaglia scelto da questa pietra lanciata nell'acqua stagnante, che porta alla progettazione e costruzione della Mole di Torino.

Ritorno alla piacevolezza e fantasia grafica e narrativa dei primi due libri per ZeroCalcare con l'ultimo Dimentica il mio nome.

Saggi filosofici di questo periodo sono l'interessante La vita sensibile di Emanuele Coccia e l'indagine su The Walking Dead di Salvatore Patriarca.
Per la critica letteraria, il non pienamente soddisfacente testo di Catherine Millot su Gide. Genet. Mishima.

venerdì 24 ottobre 2014

intelligenza della perversione

Saggio non completamente soddisfacente quello di Catherine Millot su Gide. Genet. Mishima, tre dei miei scrittori preferiti, motivo perciò dell'acquisto. La parziale delusione deriva dall'impianto eccessivamente biografico e dalla prospettiva troppo psicologica (o riduttivamente psicologica) e poco critico-letteraria dei tre brevi testi dedicati agli autori accomunati, secondo l'autrice, dall'uso di un'intelligenza perversa, o di una perversione intelligente: "essi hanno rinunciato, in quanto soggetti, a ogni identità con se stessi, a ogni pretesa di unicità. Distruggendo la nozione di un Io coerente, la loro diversità nei rapporti intersoggettivi è a immagine del passo oscillante simile a quello dello zoppo che connota nell'intimo la loro differenza. La divisione della personalità serve loro come arma al fine di destituire ironicamente quel sovrano che l'Io padrone di sé immagina di essere, mentre la loro eccentricità configura un'altra sovranità, quella del desiderio e della sua ribelle singolarità. Non ci troviamo qui sotto il segno del conflitto interiore, ma dell'affermazione polimorfa. Essi sono non perfidi, ma bifidi, bicefali, mitologici come centauri, alle volte patetici quanto il Minotauro".
Così, Gide è un ibrido di baccante e Spirito Santo, è cielo e inferno al tempo stesso, la cui devianza assume il volto della saggezza e il cui erotismo dallo stile femminile lo lascia aperto a tutti i venti del desiderio, lo offre alle forze paniche della natura (celebrate ne I nutrimenti terrestri), lo dissolve da ogni identità, trasforma la sua anima in una 'locanda aperta al crocevia' fedele al godimento senza mai disdegnare lo scandalo.
Genet fa della disgrazia una vittoria spingendo il destino all'estremo finché questo non si ribalta, domina la situazione volendola, fa miracoli di una posizione di scarto trasformando l'abiezione in una nuova forma di amore, viziosa e poetica insieme, magnificandola, sublimandola; egli stesso è un diamante, giustamente chiamato solitario, che la sofferenza e la vergogna hanno prodotto, desidera essere santo sacrificando il proprio orgoglio su strade imprevedibili e inventate, e funambolo che sul filo del rasoio unisce i due poli della solitudine umana - essere solo ed essere il solo, esclusione ed eccezione - dimostrandone l'identità.
Infine, anche Mishima mostra un radicato sentimento di tragica esclusione, un'identità di paria, la convinzione di essere diverso e sottratto alla sorte comune, e quale rivincita sceglie di trovarsi un posto a parte imparando a gioire di tutto, negando la castrazione con il piacere, sfidandosi a non avere simili, anche se tale trionfo non può essere esente dal senso di colpa per la diserzione agli obblighi normali; se carne e spirito, amore e desiderio, bellezza e bruttezza, grazia e disgrazia, purezza e lordura, sono poli opposti e assoluti di purezza e perfezione che risultano separati e la cui mescolanza è esclusa, si dà però forse una possibilità di riconciliare l'universale e l'esistente, l'arte e la vita: il sole e l'acciaio degli strumenti di ginnastica e delle arti marziali possono spogliare il corpo della sua particolarità innalzandolo all'universale, all'idea, al concetto, alla forma pura, mentre la letteratura può impiegare le parole in modo non conforme alla loro natura, tradire sottilmente la loro funzione, assemblarle in maniera perversa, universalizzando l'individualità dello scrittore in uno stile; stile e muscoli, corpo e parole, polarità ammessa in un io che è scontro e contraddizione, ma che può godere veramente insieme di istante ed eternità, che rispondono a desideri opposti, solo nella morte bella dell'eroe: "che cosa c'è di così terribile nelle viscere esposte all'aria? Che cosa d'inumano a considerare l'uomo col suo midollo e la sua corteccia, senza fare distinzione tra il fuori e il dentro - come si fa per le rose? Ah! Se soltanto si potesse mostrare il rovescio dello spirito e della carne, rigirarli delicatamente come i petali della rosa, esporli in pieno sole e alla brezza di primavera!" (Il padiglione d'oro).

martedì 14 ottobre 2014

the walking dead

Con il sottotitolo de Il male dentro Salvatore Patriarca conduce la sua analisi filosofica della serie televisiva The Walking Dead. La tesi del saggio è che l'ambientazione in un mondo catastrofico consenta alla narrazione televisiva della serie di affrontare tre grandi temi quali il rapporto dell'uomo con la natura e l'ambiente circostante, il problema della presenza (o assenza) della tecnologia, la costruzione della relazione all'altro e dello spazio comunitario. L'invasione degli zombie fa tabula rasa di quanto vissuto e conosciuto dagli uomini, obbligando così a pensare all'ambiente in cui attualmente si vive in maniera differente, scoprendolo fragile: l'angosciosa realtà di uno spazio privato delle rassicuranti certezze quotidiane permette di cogliere la quantità di elementi di senso che costellano l'esistenza umana ma che, per la maggior parte e normalmente, non sono presi in considerazione perché dati per scontati. Revocata la sicurezza dell'ambiente esterno, non un passo è sicuro nel nuovo mondo degli zombie e la natura sembra aver perso quella gentilezza che secoli di attività umana le avevano garantito, divenendo/tornando oscura, pericolosa, incontrollabile, minacciosa, ostile. Ma anche lo spazio interno, la casa, come residenza permanente e privata cessa di esistere come prima, nella scomparsa di ogni capacità di proteggerlo.
Allo stesso modo, il sapere tecnologico è distrutto e le comunicazioni estremamente limitate: l'uomo ha perso l'arma del sapere nell'azzeramento della sedimentazione conoscitiva che la successione delle generazioni ha prodotto e tramandato, ereditato e arricchito. Così, conoscenza e tecnica si rivelano quali complementi umani dell'ambiente vitale, essenziali a garantire una vita che non si riduca alla sopravvivenza.
Ancora, nella figura dello zombie l'altro viene vissuto come un dubbio continuo, dubbio che però si insinua nello stesso sé perché, si scopre, il male (il contagio degli zombie) è dentro l'uomo stesso: così, "l'antropologia di The Walking Dead è un'antropologia negativa, sul filone di quella kantiana, secondo la quale la natura recondita dell'uomo è quella di un 'legno nodoso', che non potrà mai essere del tutto dritto". Gli zombie, quindi, rappresenterebbero la proiezione di un'oscurità umana che dovrebbe restare soggiogata all'interno, ma che, invece, non è più trattenuta ed è giunta alla visibilità. La serie, quindi, narrerebbe di un uomo che va ricostruito, riportando il male sotto controllo, del rinnovato tentativo di porre le fondamenta di un vivere comune che possa tenere a bada il male che l'uomo ha dentro.

venerdì 3 ottobre 2014

metafisica della veste

Dopo aver apprezzato l'ultimo saggio di Emanuele Coccia sulla pubblicità come discorso morale, Il bene nelle cose, risalgo alla sua produzione precedente con La vita sensibile. Il mondo è realtà sensibile e l'umano essere nel mondo e averne cura si realizzano in questa dimensione media, che non coincide con il reale ma con il divenire fenomeno dell'oggetto in un luogo intermedio, trascendentalmente esteriore sia all'anima sia alle cose. Il sensibile come medio è una sorta di supplemento d'essere, di spazio ulteriore, di fuori-luogo, di immagine che non è mai riducibile né alla percezione del soggetto né all'esistenza naturale dell'oggetto, e che garantisce la possibilità di vita sensibile nell'universo. Questo primato del sensibile e dell'immagine è espresso da Coccia nella tesi per cui è "grazie al visibile che la visione è possibile, ed è la musica a rendere possibile l'ascolto.  Quanto oggi chiamiamo mente, spirito, o realtà cognitiva non è che un modo particolare della realtà mediale, una sorta di 'medio animato'. È il medio, dunque, a permettere di comprendere cosa è la mente e non il contrario. Se v'è del sensibile nell'universo è perché non v'è alcun occhio che sta osservando tutte le cose. La vita sensibile non è la faticosa fisiologia degli organi di sensi e non è custodita nella struttura dei corpi organizzati: i suoi confini arrivano sino a dove arriva il sensibile, e la sua fisiologia è anche extracorporea, extramentale, extrasoggettiva". Il sensibile è quindi una potenza immateriale e senza nome dei corpi, la vita soprannaturale delle cose - infraculturale e infrapsichica perché lo psichico è una forma incarnata del mediale sensibile -, né esclusivamente antropologico né meramente naturale.
Premessa questa fisica del sensibile, Coccia passa nella seconda parte del suo saggio ad elaborarne l'antropologia. L'uomo non si limita a ricevere il sensibile, ma non cessa di produrlo, lo emana perpetuamente sensificando il razionale, alienando, reificando, oggettivando lo psichico in immagine esterna. L'uomo chiede e affida la testimonianza radicale sul proprio essere al sensibile. Dando corpo allo spirituale l'uomo mostra che la propria esistenza è corpo e non si forma su un corpo che lo precede: il sensibile fa vivere l'uomo in un corpo ultraanatomico, ulteriore rispetto a quello organico, che non è il sostrato ma l'atto e la materia stessi dei vissuti. Vivere significa, quindi, cesellare la propria apparenza e solo nell'apparenza si decide ciò che si è: il vivente è quell'ente la cui la natura è interamente in gioco nella sua apparenza, la cui pelle non costituisce semplicemente un limite di protezione ma un organo speciale dell'ornamento che serve a costruire l'apparenza e su cui ciò che è più esterno parla di ciò che è più interno. "L'identità, il genere e la specie di un individuo si decidono nella cura con cui ogni vivente prova a dar forma alla propria apparenza". Ogni natura deve farsi ornamento per poter consistere, deve trasformarsi in moda, costume, veste, maschera, e l'uomo è l'animale che ha imparato a vestirsi, a trasformare tutte le cose nel suo mantello, il cui corpo non è mai interamente dato e completo, riducibile al suo mero fatto anatomico: "nel trucco e nell'ornamento una porzione di mondo ci esprime più di quanto non lo faccia il nostro stesso corpo anatomico; può dire io solo chi sa truccarsi". Nella veste bios e ethos, vita e costume, natura e abitudine, coincidono, in essa si definisce e decide la natura di un vivente.

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