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venerdì 3 ottobre 2014

metafisica della veste

Dopo aver apprezzato l'ultimo saggio di Emanuele Coccia sulla pubblicità come discorso morale, Il bene nelle cose, risalgo alla sua produzione precedente con La vita sensibile. Il mondo è realtà sensibile e l'umano essere nel mondo e averne cura si realizzano in questa dimensione media, che non coincide con il reale ma con il divenire fenomeno dell'oggetto in un luogo intermedio, trascendentalmente esteriore sia all'anima sia alle cose. Il sensibile come medio è una sorta di supplemento d'essere, di spazio ulteriore, di fuori-luogo, di immagine che non è mai riducibile né alla percezione del soggetto né all'esistenza naturale dell'oggetto, e che garantisce la possibilità di vita sensibile nell'universo. Questo primato del sensibile e dell'immagine è espresso da Coccia nella tesi per cui è "grazie al visibile che la visione è possibile, ed è la musica a rendere possibile l'ascolto.  Quanto oggi chiamiamo mente, spirito, o realtà cognitiva non è che un modo particolare della realtà mediale, una sorta di 'medio animato'. È il medio, dunque, a permettere di comprendere cosa è la mente e non il contrario. Se v'è del sensibile nell'universo è perché non v'è alcun occhio che sta osservando tutte le cose. La vita sensibile non è la faticosa fisiologia degli organi di sensi e non è custodita nella struttura dei corpi organizzati: i suoi confini arrivano sino a dove arriva il sensibile, e la sua fisiologia è anche extracorporea, extramentale, extrasoggettiva". Il sensibile è quindi una potenza immateriale e senza nome dei corpi, la vita soprannaturale delle cose - infraculturale e infrapsichica perché lo psichico è una forma incarnata del mediale sensibile -, né esclusivamente antropologico né meramente naturale.
Premessa questa fisica del sensibile, Coccia passa nella seconda parte del suo saggio ad elaborarne l'antropologia. L'uomo non si limita a ricevere il sensibile, ma non cessa di produrlo, lo emana perpetuamente sensificando il razionale, alienando, reificando, oggettivando lo psichico in immagine esterna. L'uomo chiede e affida la testimonianza radicale sul proprio essere al sensibile. Dando corpo allo spirituale l'uomo mostra che la propria esistenza è corpo e non si forma su un corpo che lo precede: il sensibile fa vivere l'uomo in un corpo ultraanatomico, ulteriore rispetto a quello organico, che non è il sostrato ma l'atto e la materia stessi dei vissuti. Vivere significa, quindi, cesellare la propria apparenza e solo nell'apparenza si decide ciò che si è: il vivente è quell'ente la cui la natura è interamente in gioco nella sua apparenza, la cui pelle non costituisce semplicemente un limite di protezione ma un organo speciale dell'ornamento che serve a costruire l'apparenza e su cui ciò che è più esterno parla di ciò che è più interno. "L'identità, il genere e la specie di un individuo si decidono nella cura con cui ogni vivente prova a dar forma alla propria apparenza". Ogni natura deve farsi ornamento per poter consistere, deve trasformarsi in moda, costume, veste, maschera, e l'uomo è l'animale che ha imparato a vestirsi, a trasformare tutte le cose nel suo mantello, il cui corpo non è mai interamente dato e completo, riducibile al suo mero fatto anatomico: "nel trucco e nell'ornamento una porzione di mondo ci esprime più di quanto non lo faccia il nostro stesso corpo anatomico; può dire io solo chi sa truccarsi". Nella veste bios e ethos, vita e costume, natura e abitudine, coincidono, in essa si definisce e decide la natura di un vivente.

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