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sabato 19 marzo 2016

filosofia dell'umorismo

Qual è il rapporto tra ridere e filosofare? La storia che Lucrezia Ercoli percorre e ricostruisce nel suo Filosofia dell'umorismo mostra come l'opposizione tra serio e comico non sia altro che l'equivalente di altre contrapposizioni sedimentate nella cultura ufficiale, così che l'umorismo sembra destinato a riecheggiare fuori dalle mura della cultura rappresentando come un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo. Un ospite inquietante, cui spesso è toccato subire il disinteresse teorico e la condanna morale. Così che sull'umorismo, dote in effetti piuttosto rara tra gli esseri umani, sono scivolati anche i più grandi pensatori che "sono riusciti a definire il pensiero, l'essere, Dio, ma quando sono arrivati a spiegarci perché un signore che scende dalle scale e improvvisamente scivola ci fa morire dal ridere, si sono avvolti in una serie di contraddizioni e ne sono usciti, dopo immensi sforzi, con risposte esilissime" (Umberto Eco).
Dalla serietà, sacralità e potenza ma anche violenza e aggressività che il mito classico riconosce al riso, al riso, nella filosofia antica, di Democrito - impietoso e anche crudele, non è quello della innocente spensieratezza ma quello distaccato e privo di compassione del sapiente che sa - e di Diogene - cinico, blasfemo, osceno, scandaloso e distruttore, dissacra ogni veneranda e terribile autorità; dalla distinzione operata da Aristotele tra un appropriato buon umore, una giudiziosa arguzia che non è né buffoneria né rusticità, e lo stigmatizzabile ridicolo che va tenuto sotto controllo (riconoscendogli così, però, il potere di trasformarsi in un grimaldello che porti alla luce un fondo indomabile che pur giace nel cuore dell'umano), all'ambiguità del riso carnascialesco che ha insieme un ruolo di liberazione ed emancipazione sociale ed esistenziale e anche uno di conservazione di quell'ordine che decostruisce ma di cui esorcizza la dissoluzione definitiva; dall'umorismo che per Baudelaire rappresenta i confini incerti dell'umano, una zona di confine tra la grandezza infinita del divino e l'infinita miseria della bestia, all'arguzia che per Schopenhauer è il godimento di scoprire l'insufficienza della ragione, il piacere della sua sconfitta, che mostra come l'infinita delicatezza delle sfumature dell'esperienza non si adatti alla vita astratta dell'intelletto; dall'umorismo di Jean Paul, che è una filosofia folle e forsennata dallo spirito poetico e libero, a  quello di Pirandello, che riflette sulle crudeli leggi sociali che imprigionano il fluire vitale in una serie infinita di forme fisse e maschere; dalla funzione sociale, di risanamento di una contraddizione e castigo di un comportamento, che ha il riso per Bergson, all'umorismo che per Ritter, quale profonda critica della ragione e della sua pretesa di limitare tramite i propri concetti finiti la forza dell'infinita pienezza della vita, è filosofia; dal riso con cui Nietzsche risponde alla morale e alla metafisica, danzando con lievità al di là di esse, a quello con cui Bataille si  affranca da ogni verità, distrugge ogni trascendenza, decostruisce ogni identità per aprirsi a un agire veramente libero.
Questa storia dell'umorismo ci insegna che è necessario ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità; che "il ridente altro non è che il maieuta di una diversa società possibile" (Umberto Eco); che umorismo e filosofia hanno lo stesso scopo di gettare un'ombra di diffidenza sulle ovvietà del senso comune, sulle premesse ideologiche, sui pregiudizi culturali. Ridere è filosofare.

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