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lunedì 4 gennaio 2016

medusa

Due saggi dello storico dell'arte francese Jean Clair, che nel tema del meduseo trovano un punto in comune.
Uno fin dal titolo, Medusa, figura che sembra perseguitare e infestare le manifestazioni artistiche più diverse tipologicamente e più distanti nel tempo, fantasma che ossessiona e ritorna. Secondo l'autore, la Medusa fa segno a quel fenomeno perturbante che è il bimorfismo o l'ambiguità sessuale: l'inquietudine ontologica principale, infatti, non consisterebbe tanto nel fatto che ci sia qualcosa anziché il nulla, ma nel fatto che ci siano due sessi invece di uno. Su ogni individuo, sulla sua integrità, incombe dunque un pericolo proprio a causa del corpo, in quanto sessuato, e dello sguardo dell'altro, sotto il quale moriamo - gioco mortale che si cela sotto il semplice fatto di guardare.
Guardare, infatti, significa non solo osservare il mondo ma anche proteggersi, fare attenzione, stare in guardia (ha la stessa radice di warten to ward). L'artista, dal momento che guarda, è l'ostinato guardiano di una regola del vedere, ma è anche colui il quale, rompendo la guardia, avanza e, a rischio di perdersi, affronta lo sguardo che ha creduto a lui destinato, periglioso excursus di un occhio solitario e vulnerabile. Vedere significa innanzi tutto vedere che si è un sesso, ossia un essere separato, percepire una distanza fra sé e il resto del mondo: aprendo gli occhi l'uomo vede uno sguardo che lo guarda, diviene un essere visibile soggetto allo sguardo degli altri e sa di essere destinato alla morte, sanzione del corpo sessuato. La paura del sesso è allora associata indissolubilmente alla paura dello sguardo. Ecco Medusa, fonte di attrazione e repulsione come tutto ciò che concerne lo sguardo e il sesso, tutto ciò che ci ricorda che siamo nati e dobbiamo morire, segno di quella linea di frattura e di faglia che separa in due gli esseri viventi così come separa i vivi dai morti.
Ecco Medusa, dalla tradizione greca al basilisco medievale, dalla prospettiva artificiale del Rinascimento alle decollazioni barocche, dalla statuaria marmorea e monocroma dalle connotazioni sobrie e funerarie del neoclassicismo con le sue sculture pulite e cieche agli arabeschi dell'Art Nouveau, dalle sfingi dei simbolisti ai colori artificiali di Van Gogh. La Gorgone gode della paradossale condizione di essere potenza delle tenebre e del disordine e, insieme, della rigenerazione, lei il cui sangue è farmaco - veleno e medicina, da cui nasce Pegaso. Chi riesce a trionfare su di lei e riordinare il caos in cosmo è il pittore che non esiterà a mozzare la testa di Medusa per raccoglierne il sangue fecondo, a costo di tagliarsi un orecchio e sacrificare la propria vita all'arte. Il corpo colto dalla rigidità cadaverica dell'estetica decadente con Van Gogh è rianimato dal colore, potere tearapeutico e forza vitale. Eppure sotto questa riattivazione dei poteri del cromatismo si nasconde uno strano paradosso: la povertà fece di Van Gogh il primo pittore moderno che abbia utilizzato quasi esclusivamente colori artificiali, meno costosi di quelli naturali. Questi colori chimici, instabili, erano nati dalle stesse ricerche che produssero gli esplosivi utilizzati durante la Grande guerra, alcuni gas dal colore verdastro come il cloro o bluastro come lo Zyklon B dall'uso mortale. Il potere rigenerante della pittura di Van Gogh era dunque non solo un potere instabile ma anche mortifero, i suoi colori testimoniano la natura ambigua della modernità: bellezza precaria e rischiosa che ci restituisce il fascino dello sguardo meduseo soltanto provvisoriamente e con il rischio mortale di vederlo rivolgersi inopinatamente contro di noi.
Ancora Medusa, dall'organizzazione formale rigorosamente simmetrica e biomorfica delle familiari ed estranee macchie di Rorschach al Duchamp della scatola ottica Dati 1. La cascata 2. Il gas illuminante e dell'autoritratto With my tongue in my cheek. Concepita come un profilo di medaglia, quest'opera è  in parte un semplice tratto di matita, in parte un bassorilievo, con la mascella destra modellata in gesso nella cui massa sono stati incorporati dei peli naturali: questo pelo, incongruo, è un'intrusione nell'artificio dell'opera, l'intrusione nella costruzione di un logos, nel frutto di un pensiero organizzato, di un elemento irriducibile della specificità del sensibile, un elemento che sopravvive alla morte dell'individuo; il pelo della bestia, bruttura assoluta, eternamente inafferrabile, che nasce imprevedibilmente dove non è atteso o lo si scopre bianco dove non lo si aspettava così presto (verme nel frutto, temporale che scoppia fragorosamente), cresce estraneo al pensiero, definitivamente abbandonato alla notte del senso, è proprio ciò che testimonia l'orrore di morire e insieme l'orrore di essere nati, atto che ci ha fatto entrare nel regno delle cose che nascono, crescono, deperiscono e muoiono, come l'erba e i vegetali o le forme più elementari della vita organizzata (vermi, serpenti, rettili). L'autoritratto di Duchamp è una vanitas sarcastica che ha trasformato il motivo dell'individuo eroicizzato in un profilo di medaglia in un orripilante memento mori e in cui il pelo è indice dei due destini assegnati all'uomo: il bimorfismo sessuale e la morte.

Nel secondo, Il nudo e la norma, Jean Clair si interroga sul significato della nascita nello stesso anno, il 1907, di due opere di pari importanza e ugualmente ammirate ma così diverse come il Ritratto di Adele Bloch-Bauer di Klimt e Les Demoiselles d'Avignon di Picasso. 
Le rivoluzioni artistiche che segnano l'inizio del XX secolo sono i prodromi della guerra: annunciano, prefigurano e inventano quel caos che sarà la condizione moderna resa "ufficiale" e "istituzionale" dopo la Grande guerra, quel cambiamento nel nostro rapporto con la visione del mondo, nel nostro modo di guardare. Se in alcuni momenti della sua storia l'arte ha saputo far coincidere così perfettamente il nudo, il desiderio, e la norma, la legge, l'atto di nascita della prima modernità è costituito dall'Olympia di Manet, che sconvolse così radicalmente i canoni delle accademie classiche da risultare inconcepibile per gli spettatori, abominevole. Quello della seconda modernità, invece, da due ben diversi nudi femminili, accomunati però dall'impossibilità dell'occhio di sostenere, ricomporre e assumere la forma globale del corpo umano - forma che riflette la nostra (in)capacitàà di organizzare il mondo in un'unità coerente. Questa impossibilità, questa incrinatura prodottasi nella capacità dell'uomo di rappresentare se stesso e il proprio corpo, deriva dal fatto che l'uomo scopre che il desiderio erotico è potenza di distruzione e non di coesione: l'arte, allora, non è più atta ad assumere la totalità del corpo umano, il nudo, secondo quegli specchi delle proporzioni che sono le norme, i canoni, le regole, i trattati di stile; la funzione integrativa dell'io non riesce più a essere esercitata, il corpo diviene oggetto di esperienze di dislocazione e di bricolage relative a un nuovo schema corporeo, inedito, inaudito.
Ecco quindi Picasso fare a brandelli le forme e disarticolare le membra. Ma altrettanto stupefacente della frantumazione dei corpi ottenuta come attraverso il riflesso di specchi rotti è - ne Les Demoiselles d'Avignon - la presenza, la persistenza dell'elemento che, in virtù della sua intensità e della sua reiterazione, sembra conferire unità all'opera al di là del carattere disomogeneo delle figure che la costituiscono: l'occhio, l'ocello a mandorlo ripetuto nove volte, che fa della tela un palladio costellato di occhi, un mantello di terrore dal potere terribile e terapeutico, protettivo e apotropaico. Picasso resuscita il volto della Medusa.
Per vie opposte all'empatia di Picasso, per le vie dell'astrazione, della decorazione geometrica e della lucentezza della materia, anche Klimt, però, realizza nel Ritratto di Adele Bloch-Bauer uno scudo apotropaico in cui il nudo femminile è coperto da un'egida splendente e costellata di occhi: incarnazione della donna mortifera dotata non solo del potere di pietrificare ma anche di quello di tagliare la testa (Giuditta e Salomè come incarnazioni femminili di Perseo), la donna di Klimt è un'eroina capace di affrontare nel faccia a faccia mortale il potere della Gorgone-pittore che immobilizza la modella sotto il suo sguardo - e particolarmente nel caso di Klimt, che sa rendere il modello di pietra, lo mineralizza, lo litifica, ne trasforma il corpo in gemme, gioielli, tessere, orpelli, metalli nobili e pietre preziose.
Ecco la differenza: Klimt impiega tutta la forza normativa di uno stile, tutta la coerenza aggregatrice dell'arte per scongiurare il maleficio del nudo, del corpo, del sesso, così che solo il volto della modella emerge e si stacca da un apparato aatratto e il quadro intero diventa uno scudo mimetico, un riflesso dello sguardo di Medusa. Picasso, invece, confrontandosi con il medesimo pericolo, in preda alla medesima angoscia, spezza l'unità del sistema rappresentativo, abbandona lo stile. Il primo passa a un'astrazione sempre più rigida, a un sistema puramente formale, a una bellezza cristallina, a una norma matematica che lo protegga da un mondo divenuto ostile. Il secondo, sgomento e impaurito dallo spettacolo del mondo, ricorre alle pratiche primitive che sono da un lato lo smembramento dei corpi e dall'altro l'uso rituale delle maschere, regredisce verso una forma di comportamento magica di distruzione e smontamento del reale in modo da privarlo della sua pura e minacciosa frontalità.

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