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Gli X-Men & la Filosofia

Chi non vorrebbe essere un super eroe? Ma chi si è mai chiesto cosa vorrebbe dire esserlo veramente? Prendiamo gli X-Men, eroi della nota casa grafica Marvel. Meravigliosi, sorprendenti, sempre estremi e per questo anche perturbanti, inquietanti. Sono i mutanti, più che uomini, meno che mostri, finché al servizio del bene. E se quelle “meraviglie” camminassero tra di noi? Sarebbe desiderabile essere un mutante? Perdonare i nemici o donare loro la morte? Come è essere un mutante? E tu che mutante saresti? Una filosofia per mostrare come la lettura dei fumetti sia un’esperienza profondamente filosofica: l’incredibile filosofia dei fumetti.

Questa la quarta di copertina e questo, invece, l'esergo alla fine scelto:
«Volete davvero sapere come ci si sente nei panni di un X-Man? Basta essere un ragazzo di colore intelligente e amante della lettura in un ghetto americano contemporaneo. Mamma mia! Un po’ come avere due ali di pipistrello o un paio di tentacoli che ti spuntano dal petto» (Junot Díaz, La brevefavolosa vita di Oscar Wao).

Si parte dal binomio unheimlichuncanny. 
Uncanny è infatti aggettivo che sarebbe plausibile tradurre anche con “perturbante”, soprattutto a dar retta alle parole del filosofo francese Jacques Derrida che lo affianca proprio al tedesco unheimlich (perturbante, in italiano), facendo poi seguire questa coppia da un elenco di possibili sinonimi, traduzioni, perifrasi, giri di parole: «Quale parola greca potrebbe tradurre unheimlich, uncanny? Perché non átopos? Fuori luogo o senza luogo? Senza famiglia né familiarità, fuori di sé, espatriato, straordinario, stravagante, assurdo o folle, insolito, sconveniente, strano ma anche straniero». 
Alla complessità del concetto di perturbante, Sigmund Freud ha dedicato un breve saggio, arrivando a concludere che esso è un fatto intimamente familiare che riemerge dopo essere stato sottoposto a un processo di rimozione, un residuo di attività psichica riportato alla luce. E allora, cosa rende gli X-Men così uncanny?
Si può provare a immaginare quale effetto farebbe se queste creature diverse e straordinarie, meravigliose (marvels), camminassero veramente tra di noi: paura? rimprovero per la propria inerzia? il desiderio di essere un mutante, diverso, che contrasta con il richiamo alla normalità?

Essere singolare, unico, eccezionale ed essere a parte, separato, solitario, isolato, abbandonato, senza gli altri – come su un’isola deserta –, non sembrano stati e condizioni così diversi, o comunque così separabili. Dirsi "il solo", essere solo, essere il solo«Non è un caso che due sensi così diversi come «sono solo» (nel senso della solitudine) e «sono il solo», nel senso dell’eccezione, della singolarità, dell’unicità, dell’elezione e dell’insostituibile (che d’altro canto sono spesso le caratteristiche della sovranità) alloggiano qui nello stesso termine», nota Derrida nel suo seminario dedicato alla lettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Del resto, «non ci sono talvolta nella stessa persona, nello stesso desiderio» – nel «sognare le isole, non importa se con angoscia o con gioia» (Gilles Deleuze–, «una torbida concorrenza e strana simultaneità, quanto all’insularità dell’isola, tra l’attrazione e l’avversione», tra quelle che egli, con neologismi ispirati al romanzo di Defoe, chiama «l’insularofilia e l’insularofobia?».
Desiderio di singolarità ed eccezionalità che un gatto potrebbe riconoscere nell'umano pavoneggiarsi e intimidire gli altri attraverso il ricorso ai vestiti, quando la natura avrebbe invece creato tutti uguali e nudi. E anche in una comunità di neo-umanizzati pinguini si riflette del ruolo delle vesti.

Ma al di là dei vestiti, l’uomo risulta qualcosa di più di un mero animale solo se si dimostra pronto a mettere a rischio la propria vita, la propria esistenza biologica, il proprio essere naturale, in funzione del proprio non vitale desiderio umano. Così insegna Georg Wilhelm Friedrich Hegel, per il quale il soggetto, nella qualità di autocoscienza, «consiste nel mostrarsi come negazione pura della propria modalità oggettiva, cioè nel mostrare di non essere legato a nessuna esistenza determinata» – anche mettendo alla prova la propria libertà e a rischio la propria vita, arrivando a dimostrare di non tenere alla vita, di disprezzarla in un certo senso, a «dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e la morte». Ciò per cui si lotta a morte è, in definitiva, il desiderio propriamente umano di riconoscimento, di essere riconosciuti come portatori di prestigio e valore autonomo. Occorre che tale riconoscimento sia rivelato come una realtà oggettiva, esterna all’io stesso, e quindi l’uomo deve farsi riconoscere dagli altri. Questa azione volta a soddisfare il desiderio di riconoscimento è la prima attività antropogena, che dà origine all’uomo in quanto uomo e non semplice animale, essere biologico, dato naturale, e manifesta il carattere trasformativo dell’esistenza umana – che non è ciò che è, ma è ciò che non è, ossia ha un aspetto essenzialmente di movimento, cambiamento, divenire.

Al di là della paura e dell'insicurezza provocate dalla eventuale comparsa e dalle azioni dei mutanti, questi sono, soprattutto – ed è questa, probabilmente, la principale ragione del successo di pubblico delle testate fumettistiche dedicate agli X-Men e, poi, agli altri gruppi mutanti –, l’immagine dell’esistenziale lotta umana, tutta umana, per il soddisfacimento del desiderio di riconoscimento,  per la ricerca  di un’autentica identità, fattori che determinano e caratterizzano l’essere umano come costantemente in divenire, come mutante, appunto. E se c’è un momento della mutante vita umana che essi in particolare incarnano e rappresentano è l’adolescenza. Una breve passeggiata tra adolescenza e mutazione può prevedere, come alcune delle sue tappe, la graphic novel Angelo. Rivelazioni, e anche i romanzi fantascentifici di Theodor Sturgeon Più che umano e Un po' del tuo sangue, o ancora il romanzo di formazione La fortezza della solitudine dello statunitense (e appassionato di fumetti) Jonathan Lethem  che ci permette anche, uscendo un attimo dal mondo mutante ma rimanendo in quello supereroistico e fumettistico, di passare per il Dark Knight di Frank Miller e il Kick Ass di Mark Millar , due romanzi dell'italiano Fabio Geda come Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani e L'estate alla fine del secolo, L'opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers. Tutto questo solo per fare qualche esempio.

La trasformazione, la mutazione, non sono però caratteristiche esclusivamente dell’adolescente, bensì umane in senso generale. Ma i sentimenti di solitudine, disperazione, incertezza, sofferenza, i risultati maldestri, imperfetti, indecisi di queste auto-trasformazioni e auto-creazioni, sembrano mettere in dubbio la sovrana sicurezza decisionale e il controllato aspetto teorico e pratico dell’azione messi in atto dal soggetto. Adolescenti e mutanti mettono in scena l’immagine di un soggetto più che altro sconosciuto anche a se stesso, dotato di un quadro e una visione assai imprecisi e incompleti di ciò che costituisce il proprio essere. In questo soggetto l’aspetto pienamente cosciente, conoscibile, decidibile, calcolabile, rappresenta solo una parte dell’esistente, mentre ciò che è più profondo ed essenziale rimane oscuro, intenso e denso. Sembra rappresentato l’io problematico decostruito da Friedrich Nietzsche, il cosiddetto io di uomini sconosciuti a se stessi, l’io non accessibile e non scrutato fino in fondo, che non è ciò che sembra essere, di cui erriamo a leggere la scrittura, di cui ignoriamo le leggi del nutrimento. Rispetto a questo io che è un mutante polipo mostruoso e sconosciuto  «Ogni momento della nostra vita fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere ed altri invece li atrofizza. E in conseguenza di questo casuale nutrimento delle parti, anche il polipo interamente sviluppatosi sarà qualcosa di altrettanto casuale, come lo è il suo divenire» , una inquietante e insaziabile tigre sul cui dorso cavalchiamo  «L’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre» , e di cui solo caoticamente nutriamo le bramose e incalcolabili fami, una cosa sola è necessaria: «”Dare uno stile” al proprio carattere – è un’arte grande e rara!».

Se c'è un personaggio tra gli X-Men che ben rappresenta il concetto di mutazione, questo è senza dubbio Psylocke –ninja telepate che è insieme katana e farfalla –, protagonista di Kill Matsu'o, serie che da furiosa ricerca di vendetta diventa scoperta del derridiano perdono dell'imperdonabile e dell'imprescrittibile e di un io che in segreto trema per la decostruzione del fantasma della propria sovranità, della fantasia e finzione della propria assoluta e autonoma libertà. Deposta la katana dell’hegeliana lotta a morte per il desiderio di riconoscimento e di signoria, di sovranità, Psylocke si mostra esposta alla decostruzione del proprio io, dell’assolutamente se stessa: sa chi è, cos’è l’io, che l’io è questa pausa, questa stasi nella stanza del tè, è il perenne mutamento che ritorna su se stesso come un serpente che si morde la coda, che «si ritorce su se stesso come il drago» o «si addensa e si squarcia come fanno le nuvole».





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